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E' risarcibile il danno esistenziale causato dall'impossibilità di andare in pensione -

Dettagli

E' risarcibile il danno esistenziale causato dall'impossibilità di andare in pensione - Perché è preclusa una scelta di vita (Cassazione Sezione Lavoro n. 3023 del 10 febbraio 2010, Pres. Sciarelli, Rel. Zappia).

CASSAZIONE CIVILE - DANNI IN MATERIA CIVILE E PENALE - LAVORO E PREVIDENZA (CONTROVERSIE IN MATERIA DI) - PREVIDENZA SOCIALE - PROCEDIMENTO CIVILE - PROFESSIONI INTELLETTUALI - RESPONSABILITA' CIVILE
Cass. civ. Sez. lavoro, 10-02-2010, n. 3023

Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Sanremo, ritualmente notificato, S.L., premesso di essere iscritto al Collegio dei Geometri della Provincia di Imperia sin dal 17.1.1961 ed alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei Geometri sin datì1.1.1967, esponeva che in data 1.3.1969 era stato assunto dal Comune di Sanremo ed assoggettato quale dipendente pubblico ad altre forme di assistenza e previdenza obbligatorie (CPDEL), pur mantenendo l'iscrizione al Collegio dei Geometri ed alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza e pur continuando a versare, in maniera ridotta, i contributi previdenziali dovuti alla predetta Cassa.

Aggiungeva che in data 13.9.1990 aveva presentato alla Cassa Geometri domanda di riscatto delle annualità pregresse dall'1.1.1961 al 31.12.1966, e, contemporaneamente, domanda di ricongiunzione dell'intero periodo assicurativo dall'1.1.1961 al 28.2.1969 a quello successivo maturato presso la CPDEL; ciò in quanto era sua intenzione chiedere il collocamento a riposo quale dipendente pubblico per riprendere ad esercitare la sua professione di geometra oppure per intraprendere l'attività di consulente esterno del Casinò Municipale di Sanremo.

La Cassa Geometri tuttavia non aveva accolto la domanda sulla base di una interpretazione della normativa in materia rivelatasi errata in sede giurisdizionale atteso che il Tribunale di Sanremo, con sentenza passata in giudicato, aveva definitivamente accertato il diritto del ricorrente ad ottenere il riscatto delle annualità pregresse e la ricongiunzione ai fini pensionistici dell'intero periodo assicurativo.

Ciò aveva comportato, a seguito di ulteriori ritardi dovuti al blocco introdotto con la finanziaria 1997, che il pensionamento di esso ricorrente era avvenuto solo nell'anno 1998.

Ritenendo pertanto che l'illegittimo comportamento della Cassa gli avesse arrecato ingenti danni, chiedeva la condanna della predetta al relativo risarcimento.

Con sentenza in data 2.4.2003 il Tribunale adito rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello il S. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l'accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Genova, con sentenza in data 27.4.2005, in parziale accoglimento del gravame, condannava la Cassa appellata al pagamento della somma di Euro 30.000,00, liquidata equitativamente, a titolo di risarcimento del danno per non avere il ricorrente potuto esercitare una legittima scelta di vita; rigettava per il resto l'appello proposto e poneva a carico della Cassa metà delle spese di entrambi i gradi del giudizio, compensando tra le parti la restante metà.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Cassa di Previdenza ed Assistenza dei Geometri con tre motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso l'intimato, che propone a sua volta ricorso incidentale affidato ad un motivo di gravame.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Preliminarmente va disposta la riunione ai sensi dell'art. 335 c.p.c., dei due ricorsi perchè proposti avverso la medesima sentenza.

Col primo motivo di gravame la Cassa lamenta violazione degli artt. 1218, 1223, 2059, 2697, 2727 e 2729 c.c., e degli artt. 112, 414 e 437 c.p.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

In particolare rileva la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto l'esistenza di un danno non patrimoniale alla persona per non avere il S. potuto "esercitare una legittima scelta di vita", non avendo rilevato che il predetto aveva omesso di indicare in concreto il bene della vita del quale assumeva il pregiudizio, e che il relativo capo della domanda era stato formulato per la prima volta nell'atto di appello.

Col secondo motivo di gravame la Cassa ricorrente lamenta vizio di motivazione sotto i profili della insufficienza, della illogicità e della contraddittorietà (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

In particolare rileva che la Corte territoriale, nel ritenere la "lesione di un interesse di rango costituzionale inerente alla persona", non aveva indicato il precetto costituzionale violato, nè l'individuazione di esso era altrimenti ricavabile.

E rileva altresì che in maniera illogica e contraddittoria la Corte territoriale aveva ritenuto che il danno in questione risultasse provato dall'avere il S. per otto anni protratto la propria attività lavorativa, ritenendo, in maniera aprioristica ed aberrante, il "lavoro" come "danno".

Col terzo motivo di gravame la Cassa ricorrente lamenta violazione degli artt. 1176, 1175, 1218, 1225 e 1227 c.c., e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Rileva in particolare che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto l'esistenza del dedotto danno alla persona, avendo la Cassa operato nel pieno rispetto dei propri compiti istituzionali, tra i quali sicuramente rientrava anche quello di procedere, specie a fronte di casi dubbi, alle opportune verifiche, affinchè la legge potesse trovare puntuale applicazione e l'interesse pubblico, affidato alla sua cura, non venisse leso; nè poteva ritenersi indicativa di alcuna responsabilità per colpa a carico della ricorrente la circostanza che in sede giurisdizionale i giudici di merito avessero disatteso la tesi sostenuta dalla Cassa.

Rileva altresì che le domande di riscatto e di ricongiunzione, proposte dal S., non avrebbero potuto comunque essere immediatamente evase, stante la necessità dello svolgimento della relativa procedura.

Col ricorso incidentale proposto il S. lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., e degli artt. 414 - 416 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, ed al parametro reddituale minimo di cui alla L. n. 438 del 1992.

In particolare rileva il ricorrente incidentale che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto non provata la intenzione di riprendere la propria attività lavorativa, sebbene si trattasse di circostanza pacifica tra le parti, di cui aveva dato atto la stessa Cassa nella memoria costitutiva in appello; e ciò anche in considerazione del fatto che il legislatore, con la previsione ai sensi della legge n. 438 del 1992 di un reddito minimo per l'iscrizione all'albo professionale, aveva stabilito una presunzione vincolante circa la valutazione dello svolgimento di attività professionale.

Il ricorso principale non è fondato.

Ed invero, per quel che riguarda i primi due motivi di gravame, che il Collegio ritiene di dover trattare congiuntamente avuto riguardo alla stretta connessione esistente fra gli stessi, occorre osservare quanto segue.

Deve innanzi tutto escludersi che la domanda di risarcimento della suddetta forma di danno non patrimoniale sia stata proposta per la prima volta in grado di appello ove si osservi che, per come risulta dal contenuto del presente ricorso per cassazione, già nel ricorso introduttivo del giudizio il ricorrente aveva lamentato "di aver dovuto prolungare per quasi otto anni il rapporto di lavoro alle dipendenze del Comune di (OMISSIS)"; e pertanto, la censura sollevata in grado di appello di non aver potuto "realizzare una propria legittima opzione di vita" costituisce evidente esplicazione della dedotta compressione della propria sfera di autodeterminazione che, a prescindere dalla terminologia adoperata, non modifica in alcun modo l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia.

Osserva in proposito il Collegio che la ratio della disposizione di cui all'art. 112 c.p.c., è quella di impedire che possano trovare accoglimento domande sulle quali controparte non è stata in grado di difendersi, perchè proposte successivamente all'atto introduttivo del giudizio, con il quale viene a delimitarsi il thema decidendum.

Devesi in proposito evidenziare che nel processo del lavoro si ha introduzione di una domanda nuova per modificazione della causa petendi, non consentita in appello, allorchè si introducono elementi nuovi o quando gli elementi prospettati in giudizio, se pur già esposti nell'atto introduttivo, vengono dedotti in grado di appello con una differente portata, atteso che in tal modo non viene in rilievo solo una diversa qualificazione giuridica dei fatti, ma si introduce nel giudizio un nuovo tema di indagine che altera l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia, con conseguente violazione della lealtà del contraddittorio ma soprattutto del principio del doppio grado di giurisdizione (Cass. sez. lav., 23.3.2006 n. 6431; Cass. sez. lav., 20.10.2005 n. 20265).

Siffatta situazione non ricorre nel caso di specie in cui il ricorrente, prospettato in primo grado il danno consistente nell'aver dovuto prolungare per otto anni la propria attività lavorativa, in sede di gravame ha in buona sostanza ulteriormente precisato che in tal modo non aveva potuto adottare una legittima scelta di vita.

Quindi nessuna immutazione o novità della domanda può ravvisarsi nel caso di specie.

Per quel che riguarda la censura concernente la ritenuta sussistenza di un danno esistenziale, osserva il Collegio che una corretta impostazione della questione in parola postula un sia pur breve richiamo alle vicende che hanno riguardato la problematica del risarcimento del danno non patrimoniale, quale conseguenza ex art. 2059 c.c., del fatto dannoso.

E' noto che con le sentenze del 31.5.2003, nn. 8827/03 ed 8828/03, questa Corte di legittimità, partendo da un'analisi storica dell'originario ambito di applicazione della norma di cui all'art. 2059 c.c., dopo aver evidenziato come all'epoca dell'emanazione del codice civile potesse essere risarcito soltanto il danno non patrimoniale derivante da reato (e cioè il danno morale) ai sensi dell'art. 185 c.p., ha operato una attenta ricostruzione del nostro sistema dei danni non patrimoniali risarcibili, ed ha svincolato l'ipotesi risarcitoria dalla concreta esistenza del fatto reato, fissando al tempo stesso criteri idonei per evitare la sovrapposizione delle diverse voci di danno create dalla prassi giurisprudenziale.

La nuova dislocazione dei danni alla persona nell'ambito dell'art. 2059 c.c., appare senz'altro idonea non solo a far superare le difficoltà relative alla selezione del danno non patrimoniale risarcibile, ma anche a rendere possibile la soluzione di molti dei problemi che sorgono con riferimento alle tecniche di valutazione e di liquidazione del danno non patrimoniale.

Coerentemente al contenuto di tali pronunce la giurisprudenza ha individuato, nell'ambito del danno non patrimoniale risarcibile ex art. 2059 c.c., la categoria del danno morale, o danno soggettivo puro, riconducibile alla sofferenza morale soggettiva, quella del danno biologico, riconducibile alla lesione dell'integrità psico-fisica e cioè alla compromissione della salute, e quella del danno esistenziale, riconducibile alla sfera realizzatrice dell'individuo ed attinente al "fare" del soggetto offeso.

Tale premessa si appalesa indispensabile al fine di una corretta ricostruzione sistematica, nella vicenda in esame, delle poste di danno non patrimoniale risarcibili.

Orbene, nel caso di specie il ricorrente ha lamentato l'esistenza del danno consistente nel non aver potuto adottare una legittima scelta di vita. Non può pertanto dubitarsi, siccome correttamente rilevato dalla Corte territoriale, della esistenza del danno dedotto, consistente in quella somma di ripercussioni di segno negativo conseguenti alla condotta posta in essere dalla Cassa, che aveva comportato la lesione di specifici interessi costituzionalmente protetti, fra cui quello di poter realizzare liberamente una propria, legittima, opzione di vita.

Nè può ritenersi che la Corte territoriale abbia omesso di indicare il precetto costituzionale violato, che - secondo la prospettiva di parte ricorrente - non sarebbe comunque altrimenti ricavabile, atteso che la tutela dei diritti di libertà costituisce il fondamento e la base primaria della nostra Carta costituzionale che dedica agli stessi la parte iniziale recante appunto l'intestazione "diritti fondamentali".

Da rilevare infine che chiaramente inaccettabile si appalesa l'assunto di parte ricorrente secondo cui, con motivazione illogica e contraddittoria, i giudici di merito avrebbero ritenuto che la protrazione dell'attività lavorativa costituisce una forma di danno, ove si osservi che in realtà il danno ritenuto dalla Corte territoriale consiste nella denegata possibilità da parte del S. di operare autonomamente le proprie opzioni di vita, anche in campo lavorativo.

Sul punto il ricorso non può pertanto trovare accoglimento.

Del pari infondato è il terzo motivo del ricorso principale.

Osserva il Collegio che l'interpretazione e la valutazione della sentenza che aveva ritenuto la illegittimità della condotta posta in essere nel caso di specie dalla Cassa ricorrente si risolve in un giudizio di fatto eseguito dai giudici investiti della istanza risarcitola in esito alla sentenza predetta, ed è censurabile in sede di legittimità solo se siano violati i criteri giuridici che regolano l'estensione ed i limiti del giudicato e se il procedimento interpretativo seguito dai giudici del merito non sia immune da vizi logici o errori in diritto (Cass. sez. 1^, 14.4.2004 n. 7062; Cass. sez. lav., 5.9.2002 n. 12901; Cass. sez. 3^, 4.4.2001 n. 4978).

Orbene, nel caso di specie la Corte territoriale, nel rilevare che la condotta della Cassa era stata giudicata illegittima da due pronunce giudiziali assolutamente uniformi con le quali la stessa era stata anche condannata al pagamento delle spese processuali, ha evidenziato che il diniego frapposto alla richiesta dal S. non risultava fondato su circolari interne, o su precedenti giurisprudenziali, o su una prassi già adottata in casi analoghi, ed è pertanto pervenuta alla conclusione che non poteva parlarsi di adempimento diligente da parte della Cassa.

Di conseguenza, dal momento che il giudice di merito ha illustrato le ragioni che rendevano pienamente contezza del proprio convincimento esplicitando l'iter motivazionale attraverso cui era pervenuto alla propria decisione, resta escluso il controllo sollecitato in questa sede di legittimità.

Deve ritenersi pertanto che il diniego, riconosciuto in sede giudiziale non giustificato, frapposto dalla Cassa alla legittima richiesta dell'assicurato, costituisce una forma di imperizia, e quindi di colpa, generatrice di responsabilità sotto il profilo civilistico.

Del tutto irrilevante si appalesa l'ulteriore rilievo concernente l'impossibilità di evadere immediatamente le domande di riscatto e di ricongiunzione proposte dal S. stante la necessità di una istruttoria in proposito, atteso che il danno lamentato non è correlato al ritardo bensì al rigetto delle domande proposte.

Da rilevare infine che l'esigenza di congruo lasso temporale per l'espletamento delle richieste non rileva neanche ai fini della quantificazione del danno, versandosi in tema di liquidazione equitativa nella quale la Corte territoriale ha tenuto conto - in una valutazione globale - di una serie di parametri, fra cui il mancato pensionamento protrattosi per "circa" otto anni.

Il ricorso proposto dalla Cassa non può pertanto trovare accoglimento.

Del pari infondato è il ricorso incidentale proposto dal S..

Anche in tal caso rileva il Collegio che trattasi di motivo che involge in realtà la valutazione di specifiche questioni di fatto, valutazione non consentita in sede di giudizio di legittimità.

Devesi sul punto evidenziare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di dare adeguata contezza dell'iter logico - argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a base della decisione (Cass. sez. 1^, 26.1.2007 n. 1754; Cass. sez. 1^, 21.8.2006 n. 18214; Cass. sez. lav., 20.4.2006 n. 9234; Cass. sez. trib., 1.7.2003 n. 10330; Cass. sez. lav., 9.3.2002 n. 3161; Cass. sez. 3^, 15.4.2000 n. 4916).

E sul punto deve altresì ribadirsi l'indirizzo consolidato in base al quale la valutazione delle risultanze probatorie involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nell'adottare la propria decisione non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (Cass. sez. lav., 20.3.2008 n. 7600; Cass. sez. lav., 8.3.2007 n. 5286; Cass. sez. lav., 15.4.2004 n. 7201; Cass. sez. lav., 7.8.2003 n. 11933; Cass. sez. lav., 9.4.2001 n. 5231).

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità il quale deve limitarsi a verificare se siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente - vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.

Orbene nel caso di specie la Corte territoriale ha evidenziato che l'intenzione da parte del S. di riprendere la professione era rimasta de tutto indimostrata. Nè tale intenzione poteva in alcun modo ritenersi un dato acquisito agli atti del processo in quanto riconosciuto dalla Cassa medesima, atteso che la stessa aveva in realtà ritenuto non ipotizzabile il danno che il S. pretendeva di aver subito per non aver potuto beneficiare della pensione e svolgere una attività professionale; di talchè la Cassa si era solamente limitata a prendere atto delle dichiarazioni del S. circa l'intendimento di riprendere l'attività professionale, ma in realtà siffatta intenzione non si era estrinsecata in alcun concreto comportamento, essendo rimasta al livello di pura affermazione o intendimento.

Del pari la Corte territoriale ha correttamente posto in rilievo che nessun parametro concreto ed oggettivo al quale ancorare una previsione di reddito futuro era stato fornito dal ricorrente, non potendo valere "il riferimento effettuato alla c.d. legge sulla minimum tax, dettata ad altri fini e con altri presupposti" e, rileva il Collegio, non potendosi assolutamente ritenere che la L. n. 438 del 1992, abbia fissato una presunzione vincolante la discrezionalità del giudice circa la previsione di reddito futuro.

In conclusione, il motivo si risolve in parte qua in un'inammissibile istanza di riesame della valutazione del giudice d'appello, fondata su tesi contrapposta al convincimento da esso espresso, e pertanto non può trovare ingresso (Cass. sez. lav., 28.1.2008 n. 1759).

Il ricorso incidentale va di conseguenza rigettato.

Ricorrono giusti motivi, stante il mancato accoglimento di entrambe le impugnazioni, principale ed incidentale, proposte, per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese relative al presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2010

 

 

   

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