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I diritti dei videoterminalisti.

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L.104/92 - L. 53/2000 - Polizia Penitenziaria - Trasferimento

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L.104/92 - L. 53/2000 - Polizia Penitenziaria - Trasferimento

 


IMPIEGO PUBBLICO   -   INVALIDI
Cons. Stato Sez. IV, Sent., 03-12-2010, n. 8527
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

Con sentenza in forma succintamente motivata, n. 292/2005, il TAR di Reggio Calabria ha respinto il ricorso dell'appellante avverso il diniego dell'Amministrazione penitenziaria in ordine alla sua istanza di trasferimento ai sensi della legge n. 104/1992, fondato sull'inesistenza del requisito della continuità ed attualità dell'assistenza al momento della proposizione nella domanda (art. 33, quinto comma, della legge n. 104/1992, come modificato dall'art. 19 della legge n. 53/2000), atteso che il ricorrente svolge servizio a Reggio Calabria e la nonna invalida handicappata risiede a ####################, in provincia di ####################.

La sentenza ha motivato il rigetto del ricorso, richiamando la normativa primaria e la giurisprudenza di essa applicativa, sulla base della quale si evince il principio che l'accoglimento della richiesta di trasferimento del pubblico dipendente nella sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, formulata ai sensi dell'art. 33 comma 5 della leggi 5 febbraio 1992, n. 104, presuppone la rigorosa dimostrazione, da parte del lavoratore, della continuità dell'assistenza al parente handicappato: circostanza, questa, smentita, a detta del TAR, dalla rilevante distanza tra sede di lavoro e residenza del parente disabile, la prima trovandosi in Calabria e la seconda in Sicilia.

Avverso la predetta sentenza ha proposto appello, con istanza cautelare, il dipendente, deducendo violazione dell'art. 33 L. n. 104/1992.

In particolare, l'appello lamenta che con la sentenza impugnata il Giudice di primo grado si sarebbe discostato dai criteri da lui stesso utilizzati per fattispecie analoghe, rigettando la domanda sul presupposto illogico e contraddittorio che la distanza intercorrente tra la sede di servizio del ricorrente e quella di residenza del disabile, impedisse di fatto di poter dare per acquisito il requisito della continuità dell'assistenza. Al contrario - osserva ancora l'appellante - tra la sede di servizio del ricorrente (Reggio Calabria) e quE1la di residenza del disabile (#################### - CT) intercorre una distanza di non più di 180 Km, percorribili in pochissime ore con un normale autoveicolo.

Il dato temporale e spaziale non poteva essere, quindi, idoneo a giustificare un giudizio di assenza del requisito della continuità dell'assistenza, tanto più che in senso diametralmente deponevano, a detta del dipendente, tutte le attestazioni allegate al ricorso, che invece evidenziavano la continuità dell'assistenza al disabile, come la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà resa dal ricorrente e la certificazione rilasciata dal Comando della Polizia Municipale di ####################, facente fede sino a querela di falso.

Con ordinanza n. 4501/2005 questa Sezione ha respinto, con chiara ed esauriente (seppur necessariamente sintetica) motivazione l'appello cautelare.

Alla pubblica udienza del 5 novembre 2010 la causa è stata trattenuta in decisone.
Motivi della decisione

1 - L'appello è palesemente infondato, come peraltro già rilevato ed anticipato da questa Sezione con la chiarissima ordinanza n. 4501/2005 di rigetto dell'istanza cautelare d'appello.

Preliminarmente, vale ricordare che la legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, n. 104 del 521992, ha stabilito, all'articolo 33, comma 5 (come novellata dalla legge n. 53/2000), che il genitore o il familiare lavoratore pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

La norma va letta ed applicata con il giusto rigore, che consenta di conciliare i contrapposti interessi, pubblici e privati, in essa coinvolti ed eviti i consueti e ripetuti abusi del " diritto " da essa riconosciuto, con l'invenzione, ad esempio, di situazioni di assistenza soggettivamente o oggettivamente inesistenti o drammatizzate, ovvero l'improvvisa (e sospetta) riscoperta di sentimenti di solidarietà familiare.

2 - La predetta esigenza di un criterio ermeneutico di razionale severità trova riscontro, anzitutto, nei reiterati interventi della Corte costituzionale, la quale, pur riconoscendo il valore primario della solidarietà e della tutela dei soggetti portatori di handicap, ha, tuttavia ed al contempo, dato rilievo alla discrezionalità del Legislatore nell'individuare gli strumenti normativi finalizzate a garantire la condizione del portatore di handicap mediante la interrelazione e la integrazione dei valori espressi dal complessivo disegno costituzionale (cfr. Corte costituzionale, 22 luglio 2002, n. 372; Corte cost. n. 406 del 1992; id., n. 325 del 1996; n. 246 del 1997; n. 396 del 1997; cfr. anche Cass., sez. un., 9 luglio 2009, n. 16102).

3 - La limitazione del " diritto " riconosciuto dalla legge al lavoratore che assista un parente invalido, in ragione della concomitanza e concorrenza di valori di rilievo costituzionale, quali i principi distintamente espressi dagli artt. 97 (buon andamento della P. A.) e 41 (libertà di iniziativa economica) Cost., si manifesta espressamente, nel citato art. 33, con riguardo alla scelta della sede di lavoro all'atto dell'assunzione, ovvero anche in via di successivo trasferimento a domanda, con l'inciso "ove possibile"; inciso che vale a configurare una subordinazione del predetto " diritto " alla condizione che il suo esercizio non comporti una lesione eccessiva delle esigenze organizzative ed economiche del datore di lavoro privato, ovvero non determini un danno per la collettività compromettendo il buon andamento e l'efficienza della pubblica amministrazione (cfr. Corte Cost. n. 372 del 2002; Cass., sez. un., 9 luglio 2009, n. 16102; sez. un., n. 7945 del 2008; Cass. n. 1396
del 2006; id., n. 8436 del 2003; id., n. 12692 del 2002).

4 - La stessa finalità di contemperamento di opposti interessi privati e pubblici, tutti parimenti rapportabili a valori di rango costituzionale, permane pur dopo la novella ampliativa del 2000.

Vale ricordare che con la sentenza della Corte Costituzionale n. 325 del 1996 che ha dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 5 sotto il profilo del mancato riconoscimento del diritto al lavoratore non convivente, il giudice delle leggi, pur sottolineando l'importanza dei valori costituzionali inerenti la protezione del portatore di handicap, ha tuttavia rilevato che "seguendo l'impostazione del giudice a quo, si rischia di dare alla norma un rilievo eccessivo, perché non è immaginabile che l'assistenza al disabile si fondi esclusivamente su quella familiare, sì che il legislatore ha, con la Legge Quadro n. 104, ragionevolmente previsto - quale misura aggiuntiva - la salvaguardia dell'assistenza in atto, accettata dal disabile, al fine di evitare rotture traumatiche, e dannose, della convivenza".

La legge n. 53 del 2000 ha novellato il testo originario dell'articolo 33, togliendo il requisito della convivenza ma lasciando intatti gli altri.

Il che significa che se il Legislatore, nell'esercizio della sua riconosciuta discrezionalità, ha ampliato, entro ristretti limiti, l'art. 33 della legge n. 104, tali limiti non possono essere superati mediante una interpretazione estensiva della novellata previsione, che intenda affievolire gli altri fondamentali requisiti della preesistenza (in casi di prima assegnazione di sede), della continuità e della esclusività.

Occorre, infatti, procedere ad una lettura della norma costituzionalmente orientata, considerato che proprio il precedente assetto normativo è stato ritenuto, come detto, conforme alla Costituzione (cfr.. Cass., sez. lav., 22 aprile 2010, n. 9557)

5 - Lo stesso criterio interpretativo polivalente, che contempera esigenze di solidarietà, razionalità e rigore è ripetutamente adoperato dalla giurisprudenza di questo Consiglio.

Si è infatti rilevato che la legge n. 104, al di là di una terminologia enfatica, non configura in realtà un vero diritto soggettivo di precedenza nei trasferimenti del familiare lavoratore, bensì un semplice interesse legittimo a scegliere la propria sede di servizio ove possibile, cioè compatibilmente con le necessità e le realtà obiettive organizzative ed operative della P. A.. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 565 del 2005 e Comm. spec., 19 gennaio 1998, n. 394).

Sul piano operativo, pertanto, la pretesa del lavoratore che assiste con effettiva continuità un parente handicappato alla scelta della sede di lavoro deve trovare accoglimento solo se risulta compatibile con le specifiche esigenze funzionali dell'Amministrazione di appartenenza.

È stato, infine, precisato (CdS, Sez. VI, 30 aprile 2002, n. 2319) che, ai fini del riconoscimento del diritto alla precedenza nei procedimenti di mobilità previsto dall'art. 33, è necessario che l'handicap di cui soffre il congiunto presenti carattere di particolare gravità e necessiti di prestazioni assistenziali permanenti, incompatibili con sede distante, e che presupposti per l'applicazione del beneficio in parola, sono la continuità dell'assistenza da lui prestata e la mancanza di altri familiari residenti nello stesso Comune in cui risiede il disabile (cfr. anche Cons. stato, sez. IV, 22 febbraio 2006, n. 793).

6 - Quanto al criterio di effettività, che vale ad evitare la precostituzione di situazioni artatamente e fraudolentemente invocate per ottenere trasferimenti lesivi del principio di imparzialità, anch'esso è stato applicato con estremo rigore, laddove, ad esempio, si è fissato il principio di preesistenza della situazione di assistenza al momento dell'assunzione (ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2010, n. 1733); ovvero quando ha fornito un'interpretazione rigorosa del requisito della continuità ed esclusività dell'assistenza, cioè della mancanza di altri supporti parentali, da correlarsi a situazioni o condizioni di carattere oggettivo, concernenti eventualmente anche stati psicofisici connotati da una reale gravità, idonei a giustificare l'indisponibilità di altri familiari a prestare la loro opera di sostegno al proprio parente invalido solo nella misura in cui risultino tali da concretizzare un'effettiva esimente da vincoli di assistenza familiare, nel
contemperamento delle posizioni dei soggetti interessati. In mancanza di tali situazioni di comprovata ed oggettiva impossibilità a fornire sostegno al proprio familiare da parte di parenti ulteriori rispetto a chi richieda i benefici della legge n. 104/1992, questa finirebbe per snaturarsi e configurarsi - in spregio alle finalità solidaristiche che costituzionalmente la supportano - come strumento per atteggiamenti egoistici o opportunistici (cfr. Cons. St., sez. IV, 15 febbraio 2010, n. 825).

7 - Al rigore sostanziale che connota l'applicazione della legge n. 104 del 1992 deve fare riscontro quello processuale e probatorio.

Infatti, si è stabilito, da parte della giurisprudenza di questo Consiglio, che ai fini della fruizione del beneficio del trasferimento per prestare assistenza ad un congiunto disabile, spetta al dipendente pubblico dimostrare, mediante dati o riferimenti oggettivi, che altri parenti e affini non siano in grado o comunque non siano motivatamente e documentatamente disponibili ad occuparsi dell'assistenza del disabile. In particolare, si è precisato che detta dimostrazione non può essere data mediante semplici dichiarazioni di carattere formale, attestanti impegni di vita ordinari e comuni, ma necessita della produzione di dati ed elementi certi e di carattere oggettivo (Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2010, n. 3237; sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1219; sez. IV, 25 giugno 2010, n. 4115).

8 - Con riferimento al caso di specie, l'amministrazione ha ritenuto che mancasse il requisito della continuità assistenziale, mancanza comprovata dalla distanza tra sede di servizio e residenza della nonna invalida.

Nello stesso senso si è pronunciata l'ordinanza emessa da questo Consiglio in sede cautelare per rigettare l'istanza di sospensiva della sentenza di primo grado formulata dal dipendente.

Invero - come peraltro già osservato da questa Sezione per una vicenda per molti aspetti analoga alla presente controversia - deve convenirsi con l'appellata sentenza nell'osservazione secondo la quale non è verosimile né credibile, secondo le regole della normale esperienza, che un dipendente, considerata la distanza fra la sede di servizio ed il luogo di residenza del congiunto, presti a quest'ultimo assistenza con continuità (Cons. Stato, sez. VI, 23 gennaio 2007, n. 234).

9 - Lo stesso appellante, d'altronde, si rende conto dell'esistenza del dato oggettivo della distanza per sminuirne, tuttavia, la portata, osservando che la distanza tra la propria sede di servizio e quella di residenza della nonna disabile, non impedisce, di fatto, di poter dare per acquisito il requisito della continuità dell'assistenza, tenuto conto che tra la sede di servizio (Reggio Calabria) e que1la di residenza del disabile (provincia di C####################) intercorre una distanza di " non più di 180 Km ".

Si tratta di affermazione azzardata, la quale non tiene conto del dato oggettivo che fra andata e ritorno da e per la sede di servizio non può intercorrere un tempo inferiore almeno alle quattro ore: tempo evidentemente inconciliabile con una effettiva ed utile assistenza giornaliera.

A ulteriore supporto della tesi della continuità, l'appellante, come esposto in punto di fatto, invoca e richiama le attestazioni allegate al ricorso di primo grado, che, a suo dire, avrebbero attestato la continuità dell'assistenza alla nonna disabile, come la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà resa dal ricorrente e la certificazione rilasciata dal Comando della Polizia Municipale di ####################, facente fede sino a querela di falso.

Quanto alla prima, si tratta evidentemente di dichiarazione inidonea, come già statuito dalla giurisprudenza richiamata sub p. 7, ad essere oggetto di atto di notorietà, riguardando un dato di diretto interesse del dichiarante.

Quanto alla certificazione comunale, essa depone proprio in senso contrario all'aspirazione dell'appellante, ivi attestandosi soltanto una assistenza " periodica ", termine che, stando ad indicare una frequenza intervallata da periodi di assenza, è tutto l'opposto di " continuativa ".

10 - Ritiene il Collegio, attesa anche la delicatezza della materia coinvolgente plurimi e contrapposti interessi di valenza costituzionale, di dover tener conto dell'indirizzo " garantista " espresso pure da questo Consiglio, con riferimento alla configurazione dell'esigenza di un ordinato assetto dell'organizzazione amministrativa, in termini di esigenza di rango sotto ordinato rispetto alla necessità di ripristinare, per quanto possibile, condizioni di uguaglianza nei confronti dei soggetti portatori di handicap, tenuto conto della rilevanza costituzionale di tale finalità (sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3566).

Al contempo, tuttavia, ritiene altresì di confermare, pur nel rispetto e nella considerazione del ricordato orientamento, l'esposto criterio di rigore sostanziale e probatorio, senza il quale le sacrosante ragioni di tutela espresse con la legge n. 104/1992 rischiano di tramutarsi in uno strumento di abuso, mediante dichiarazioni mendaci o, comunque, enfatiche, per dipendenti infedeli, privi di quel senso dell'onore e della disciplina richiesto dall'art. 54, comma 2, Cost..

11 - Conclusivamente l'appello va respinto.

Le spese, liquidate come da dispositivo nella misura conseguente anche ai chiari segnali di esito negativo dell'appello contenuti nell'ordinanza cautelare di questa Sezione, seguono, come di regola, la soccombenza (art. 26 c.p.a.).
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto,

respinge l "appello.

Spese a carico dell'appellante in favore dell'amministrazione appellata costituita, nella misura di euro 2.500,00.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
 

Polizia di Stato - Disposizioni urgenti in tema di trattamenti pensionistici anticipati

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Polizia di Stato - Disposizioni urgenti in tema di trattamenti pensionistici anticipati

ORDINANZA N. 10

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Ugo                             DE SIERVO                                    Presidente

-           Paolo                           MADDALENA                                 Giudice

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     “

-           Alfonso                       QUARANTA                                           “

-           Franco                         GALLO                                                    “

-           Luigi                            MAZZELLA                                            “

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             “

-           Sabino                         CASSESE                                                “

-           Maria Rita                   SAULLE                                                  “

-           Giuseppe                     TESAURO                                               “

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       “

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     “

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          “

-           Paolo                           GROSSI                                                   “

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 54, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e dell’art. 1, lett. a), del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 30 marzo 1998 (Programmazione dell’accesso al pensionamento di anzianità dei militari, ai sensi dell’art. 59, comma 55, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), promosso dalla Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, nel procedimento vertente tra V. R. e il Ministero dell’Interno ed altra, con ordinanza del 29 maggio 2009, iscritta al n. 144 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 17 novembre 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto che la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, con ordinanza del 29 maggio 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 54, della legge 27 dicembre 1997 n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e dell’art. 1 del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 30 marzo 1998, emanato di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro per la funzione pubblica e gli affari regionali (Programmazione dell’accesso al pensionamento di anzianità dei militari, ai sensi dell’art. 59, comma 55, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), per violazione degli artt. 36 e 38 della Costituzione;

che il rimettente espone in punto di fatto che un dipendente della Polizia di Stato presentava in data 6 giugno 1997 domanda di dimissioni a decorrere dal 30 dicembre 1997, avendo maturato l’anzianità prescritta dalla legge per ottenere il trattamento di quiescenza, e veniva collocato a riposo a decorrere dal 30 dicembre 1997;

che, tuttavia, l’art. 1 del decreto-legge 3 novembre 1997, n. 375 (Disposizioni urgenti in tema di trattamenti pensionistici anticipati) – entrato nelle more in vigore –  sanciva la immediata sospensione dell’applicazione di ogni disposizione di legge, di regolamento e di accordi collettivi che prevedevano il diritto a trattamenti pensionistici di anzianità anticipati rispetto all’età pensionabile o alla età prevista per la cessazione dal servizio in base ai singoli ordinamenti, e tale sospensione era definitivamente confermata dall’art. 59, comma 54, della legge n. 449 del 1997 sino alla data della sua entrata in vigore (1° gennaio 1998);

che per effetto della suddetta normativa, come integrata dal citato d.m. 30 marzo 1998, il ricorrente nel giudizio principale subiva il differimento della pensione al mese di aprile successivo, con fissazione del collocamento a riposo alla data del 1° aprile 1998;

che pertanto, essendo cessato dal servizio il 30 dicembre 1997 e così rimasto senza retribuzione per i mesi di gennaio, febbraio e marzo del 1998, egli chiedeva dichiararsi il suo diritto ad ottenere il trattamento di quiescenza dal giorno della cessazione dal servizio (30 dicembre 1997), con conseguente condanna del Ministero dell’interno e della Direzione provinciale del Tesoro al pagamento in suo favore dei ratei pensionistici relativi alle suddette mensilità, non riscossi per effetto della citata normativa sopravvenuta, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria;

che, in diritto, il giudice a quo, ritenute le norme impugnate rilevanti ai fini del decidere, osserva, con riferimento alla non manifesta infondatezza, che si riproporrebbe la medesima problematica del vuotodi quattro mesi della pensione e della retribuzione già irrazionalmente sofferto dal personale della scuola, cui questa Corte ha ovviato dichiarando l’illegittimità costituzionale – con sentenza n. 439 del 1994 – dell’art. 1, commi 1 e 2-quinquies, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, indi – con sentenza n. 347 del 1997 – dell’art. 1, comma 31, primo periodo, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), in punto di salvezza dell’efficacia dell’art. 13, comma 5, lettera b), della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica);

che anche in questo caso il differimento del trattamento pensionistico in danno di dipendenti pubblici rimasti privi di retribuzione violerebbe gli artt. 36 e 38 Cost., sottraendo loro il minimo indispensabile per provvedere ai bisogni essenziali della vita;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la inammissibilità o manifesta infondatezza della questione.

Considerato che il giudice rimettente censura l’art. 59, comma 54, della legge 27 dicembre 1997 n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e l’art. 1 del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 30 marzo 1998, emanato di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro per la funzione pubblica e gli affari regionali (Programmazione dell’accesso al pensionamento di anzianità dei militari, ai sensi dell’art. 59, comma 55, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), per violazione degli artt. 36 e 38 della Costituzione;

che l’art. 59, comma 54, della legge n. 449 del 1997 confermava, relativamente al periodo dal 3 novembre 1997 sino alla data di entrata in vigore della medesima legge (1° gennaio 1998), la sospensione delle previgenti norme di legge, di regolamento o di accordo collettivo attributive del diritto, con decorrenza nel periodo suindicato, a trattamenti pensionistici di anzianità anticipati rispetto all’età pensionabile o all’età prevista per la cessazione dal servizio dai singoli ordinamenti;

che in tal modo la norma primaria impugnata rendeva definitiva la sospensione già sancita dall’art. 1 del decreto-legge 3 novembre 1997, n. 375 (Disposizioni urgenti in tema di trattamenti pensionistici anticipati), decaduto per mancata conversione e specificamente abrogato, conservando validità agli atti ed ai provvedimenti adottati e facendo salvi gli effetti prodottisi, dall’art. 63 della legge n. 449 del 1997;

che deve essere disattesa, in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità avanzata dall’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri;

che, invero, sotto il primo profilo, il rimettente motiva adeguatamente, ancorché succintamente, il supposto vulnus agli artt. 36 e 38 Cost., evidenziando a carico del dipendente cessato dal servizio la perdita del minimo indispensabile per provvedere ai bisogni essenziali della vita, a causa della subìta indisponibilità temporanea sia della retribuzione sia della pensione;

che, sotto il secondo profilo, la previsione del termine di differimento del trattamento pensionistico contenuta nell’impugnato art. 1 del d.m. 30 marzo 1998 è strettamente collegata alla disciplina dettata dalla norma primaria, congiuntamente censurata, di (definitiva conferma della) sospensione transitoria di tutte le disposizioni attributive del diritto a trattamenti pensionistici di anzianità, sì da autorizzare senz’altro il sindacato della Corte sul provvedimento, di fonte legale, di moratoria dei pensionamenti anticipati;

che, quanto al merito, questa Corte ha già più volte escluso l’illegittimità costituzionale di interventi di “blocco” dell’accesso a trattamenti pensionistici di anzianità, come quello censurato in questa sede, tutti ragionevolmente inseriti nel processo di radicale riconsiderazione di tali trattamenti al fine di stabilizzare la spesa previdenziale entro determinati livelli del rapporto con il prodotto interno lordo (sentenze n. 245 del 1997, n. 417 del 1996 e n. 439 del 1994; ordinanze n. 319 n. 18 del 2001, nonché n. 318 del 1997);

che dev’essere, altresì, ribadita l’estraneità alle pensioni cosiddette “anticipate” della garanzia contenuta nell’art. 38 Cost., perché inerente allo stato di bisogno e, quindi, «riservata alle pensioni che trovano la loro causa nella cessazione dell’attività lavorativa per ragioni di età e non anche a quelle il cui presupposto consiste nel mero avvenuto svolgimento dell’attività stessa per un tempo predeterminato» (ordinanza n. 278 del 2003, proprio riguardo alla sospensione temporanea disposta dalla norma primaria qui impugnata; ma, in tal senso, già la sentenza n. 416 del 1999);

che, inoltre, l’impugnato art. 59, comma 54, della legge n. 449 del 1997 prevedeva che i pubblici dipendenti interessati dalla sospensione temporanea dell’accesso al pensionamento di anzianità anticipato (come, appunto, il ricorrente nel giudizio a quo) potessero revocare le dimissioni già previamente accettate dall’amministrazione e, ove già collocati a riposo, persino essere riammessi in servizio a domanda;

che ciò esclude, altresì, il denunciato contrasto con l’art. 36 Cost., perché, essendo disponibili strumenti per la prosecuzione o il ripristino del rapporto d’impiego rimessi alla libera iniziativa dell’interessato, l’effetto economico negativo a suo carico finisce per dipendere dalla sua eventuale scelta di non utilizzarli, ossia da un atto volontario del lavoratore, revocabile con il ritiro della domanda di pensionamento, ancorché accettata, ovvero con la richiesta di riammissione in servizio (in tal senso, sentenza n. 324 del 1999 e ordinanza n. 92 del 1997).

che, infine, inconferente è il richiamo del giudice rimettente alle pronunce di questa Corte specificamente incidenti sulla legislazione relativa alla posizione giuridica del personale della scuola per violazione dell’art. 3 Cost. (sentenze n. 347 del 1997 e n. 439 del 1994);

che, infatti, diversamente dalle fattispecie allora esaminate, caratterizzate dal fisiologico slittamento della richiesta di cessazione dal servizio all’inizio dell’anno scolastico successivo, stavolta non rileva alcun meccanismo specifico di operatività delle dimissioni, tant’è che il parametro dell’art. 3 Cost., in quella sede ritenuto violato in via assorbente, qui non risulta neppure evocato, mentre la norma impugnata inibisce temporaneamente l’accesso al pensionamento anticipato e, dunque, interviene esclusivamente – spostandola necessariamente in avanti – sulla decorrenza del trattamento di quiescenza;

che, quindi, la questione deve ritenersi, per quanto detto, manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 54, della legge 27 dicembre 1997 n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e dell’art. 1 del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 30 marzo 1998, emanato di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro per la funzione pubblica e gli affari regionali (Programmazione dell’accesso al pensionamento di anzianità dei militari, ai sensi dell’art. 59, comma 55, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), sollevata, in riferimento agli artt. 36 e 38 della Costituzione, dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale, per la Regione Puglia con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2011.

 

Polizia di Stato - Indennità di trasferimento

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Polizia di Stato - Indennità di trasferimento

Nell’articolo 1 della L. 86 del 2001 non c’è alcuna menzione, neanche indiretta, alla necessità di dover valutare anche l’ulteriore requisito della sussistenza di una distanza minima chilometrica tra le sedi di servizio interessate al trasferimento dell’appartenente alla Polizia di Stato.
D’altra parte, anche il trasferimento d’ufficio in un comune inferiore a 10 km alla sede di servizio comporta per l’interessato un sacrificio oggettivo, essendo il medesimo costretto ad affrontare nuovi oneri e disagi.

 
 
 

N. 08211/2010 begin_of_the_skype_highlighting              08211/2010      end_of_the_skype_highlighting REG.SEN.

N. 05490/2005 begin_of_the_skype_highlighting              05490/2005      end_of_the_skype_highlighting REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5490 del 2005, proposto da:
#################### ####################, rappresentato e difeso dall'avv. -

contro

Ministero dell'Interno, Questura di Caserta, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE VI n. 3045/2005 begin_of_the_skype_highlighting              3045/2005      end_of_the_skype_highlighting, resa tra le parti, concernente RICONOSCIMENTO BENEFICIO ECONOMICO DELLA INDENNITA' DI TRASFERIMENTO

 


 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Questura di Caserta;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 novembre 2010 il Cons. Luciano Barra Caracciolo e uditi per le parti gli avvocati dello Stato De Felice.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 


 

FATTO

Con la sentenza in epigrafe, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha respinto il ricorso presentato dal sovrintendente capo della Polizia di Stato #################### #################### avverso il diniego (nota del 1° settembre 2001) di attribuzione del trattamento economico di cui alla legge 19 marzo 2001, n.86 (c.d. indennità di trasferimento), richiesto in dipendenza del trasferimento d’ufficio dal -

Riteneva il Tribunale che la nota impugnata avesse correttamente fatto riferimento a circolari e note ove l’Amministrazione aveva chiarito che il presupposto per beneficiare dell’indennità fosse la sussistenza di una distanza minima di dieci chilometri tra la sede di provenienza e quella di destinazione del dipendente, presupposto conforme alla finalità della legge 10 marzo 1987, n. 100 e poi della legge 23 marzo 2001, n.86. Tale indennità continuativa mutuava lo scopo ed il regime di quella di missione ordinaria, come attestava l’interpretazione letterale e logico-sistematica della normativa, che aveva condotto all’introduzione del requisito della distanza minima in sede di emanazione della circolare applicativa della legge, non rilevando il mancato richiamo alla legge 2 aprile 1979, n.97 (in tema di missione continuativa) da parte della legge n.86 del 2001, per quanto in precedenza contenuto nella legge n.100 del 1987. Il mutamento richiamato in ricorso, incentrato sull’omesso richiamo, da parte della nuova legge, dell’art.13 della l. n.97 del 1979 (che a sua volta agganciava il trattamento all’art.12, commi 1 e 2, della legge 26 luglio 1978, n.417 consentendo tuttavia anche il richiamo dell’art.1 s.l. che derogava, in funzione dei dieci chilometri, al limite di trenta chilometri fissato per tutti i pubblici dipendenti), non rilevava, poiché l’indennità di trasferimento risultava assoggettata allo stesso regime giuridico dell’indennità di missione, omogeneità che rendeva comuni i presupposti spaziali di godimento. Ove il legislatore avesse inteso discostarsi dal regime vigente, abolendo il requisito della distanza minima, avrebbe dovuto prevederlo espressamente (l’indennità in questione sarebbe spettata alle sole categorie nominate dalla legge n.86 del 2001 in applicazione del canone ermeneutico dell’art.14 Disp. sulla legge in generale; si sarebbe determinata una deroga “ex lege” n. 100 del 2001 alla deroga “ex lege” n.97 del 1979 della disciplina generale ex lege n. 836del 1973).

Appella l’originario ricorrente deducendo i seguenti motivi:

Dal combinato disposto degli artt.1 e 13 della legge n.86 del 2001 emerge la chiara volontà di innovare il regime giuridico dell’indennità di trasferimento differenziando i trasferimento effettuati prima o dopo il 31 dicembre 2000, prevedendo solo per quelli anteriori il requisito della distanza minima tra sede di provenienza e sede di destinazione, mentre per quelli posteriori si applica la disciplina dell’art.1 s.l. che non richiama l’art.13 della l. n.97 del 79, non prevedendo così la distanza minima. Erra il Tribunale amministrativo nell’applicare le Disposizioni sulla legge in generale in quanto l’art.13 cit. ponendo una differenziazione tra nuovi e vecchi trasferimenti abroga evidentemente l’art.1, comma 1, della legge 100 del 1987, per incompatibilità con le disposizioni dell’art.1 della legge n.86 del 2001 (art.15 Disp. sulla legge in generale). Il diniego basato sulla distanza minima di 10 chilometri si fondava sulla normativa pregressa dettata dall’art.1 della l.n.100 del 1987 col suo rinvio al trattamento economico previsto dall’art.13 della l.n.97 del 1979 e su tale normativa si basavail precedente di cui a Cons. Stato, Ad. Plen., 28 aprile 1999, n. 7. Ma l’art.1 della legge n.86 del 2001 contiene una disciplina compiuta della indennità di trasferimento, senza rinvio al trattamento economico previsto per l’indennità di missione dei magistrati e quantifica con precisione lo specifico trattamento economico spettante, con un richiamo ai soli fini della quantificazione delle diarie di missione. Tra i presupposti compiutamente regolati dalla disciplina del 2001 non vi è spazio per un richiamo alle distanze minime, non recependosi più il trattamento complessivo dell’indennità di missione e la diaria è individuata esclusivamente come parametro di riferimento quantitativo, registrandosi un chiaro dato normativo che non consente di inserire un ulteriore presupposto, né esplicitato né indirettamente richiamato.

L’appellante chiede altresì la correzione del nome del procuratore costituito in primo grado per il ricorrente, erroneamente indicato nella sentenza impugnata.

Si è costituita l’Amministrazione riportandosi alle difese di primo grado e producendo documentazione al fine di invocare la reiezione dell’appello.

DIRITTO

1. Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (basato sulla disciplina applicabile al tempo dell’instaurazione delle controversia), presupposto per la erogazione della indennità di cui all'art. 1 della l. 10 marzo 1987, n. 100 era la distanza superiore ai dieci chilometri tra la nuova e la originaria sede di servizio. L'indennità continuativa, prevista per gli appartenenti alle forze armate nonché alle forze di polizia, dall'art. 1 l. n. 100 del 1987 - in estensione di analogo trattamento già previsto per i magistrati dall'art. 13 l. 2 aprile 1979, n. 97, pur se aveva i medesimi presupposti della indennità di missione ordinaria (la quale va corrisposta in ragione del temporaneo spostamento dal luogo nel quale si presta servizio), era considerata mutuare da esso lo scopo, che è proprio quello di sopperire alle maggiori necessità derivanti da un trasferimento, in questo caso permanente, in altro comune, con la conseguenza che essa (indennità) doveva considerarsi sottoposta all'identico regime giuridico dell’indennità ordinaria di missione, ivi compresa la sussistenza, ai fini della sua erogazione, della distanza minima di dieci chilometri tra la nuova e l'originaria sede di servizio (Cons. Stato, da IV, 30 luglio 1994, n. 643 fino a IV, 12 maggio 2006, n.2664).

Sennonché l’attuale disciplina della indennità di trasferimento è rinvenibile negli artt. 1 e 13 della successiva legge 29 marzo 2001, n. 86 per cui, per il personale suddetto (e per le altre categorie ivi indicate), la spettanza (per i trasferimenti successivi al 31 dicembre 2000, come nel caso in esame) è basata sui presupposti del trasferimento d’ufficio e della diversità del comune di destinazione, onde la questione va riesaminata alla luce del jus superveniens. In proposito va peraltro richiamato una recente decisione di questo Consiglio cha ha affrontato la questione sotto il profilo normativo qui in rilievo, precedente quest’ultimo che si ritiene di condividere (CGA, 18 novembre 2009, n.1071).

Occorre dunque stabilire se al personale delle Forze armate e delle forze di polizia (ed al personale appartenente alla carriera prefettizia), trasferito d’autorità ad altra sede di servizio, sita in un comune diverso da quello di provenienza, competa oggi l’indennità per il trasferimento di sede, previsto dall’art. 1 della l. 29 marzo 2001, n. 86, indipendentemente dalla misura della distanza tra le due sedi, ovvero se tale beneficio rimanga subordinato alla sussistenza del presupposto della distanza di almeno 10 chilometri tra le sedi, come affermato dalla giurisprudenza nella vigenza dell’art. 1 della l. 10 marzo 1987, n. 100.

Sostiene l’Amministrazione resistente (come pure la sentenza qui impugnata) che anche in presenza del citato art. 1 della l. n. 86 del 2001, mancando una esplicita abrogazione della precedente normativa, il beneficio debba ritenersi ancorato ad un limite minimo chilometrico. Ciò anche perché la speciale indennità in questione, secondo il previgente orientamento giurisprudenziale richiamato in apertura, in quanto“… connessa al trasferimento del personale militare o equiparato, pur non partecipando della natura dell’indennità di missione ordinaria … mutua comunque da quest’ultima lo scopo, che è, appunto, quello di sovvenire alle maggiori necessità derivanti da un trasferimento (permanente) in altra sede …”.

La suesposta tesi non può essere condivisa.

2. Come è noto, la l. 29 marzo 2001, n. 86 ha ampliato in alcune parti la normativa contenuta nella l. 10 marzo 1987, n. 100, riguardante il trattamento economico del trasferimento d’autorità del personale militare, disponendo, tra l’altro, che la nuova disciplina abbia decorrenza per i trasferimenti effettuati dal 1° gennaio 2001, rimanendo in vigore la precedente disciplina fino al 31 dicembre 2000 (così espressamente l’art.13).

In particolare, l’art. 1 della richiamata l. n. 86 del 2001 testualmente recita: “Al personale volontario coniugato e al personale in servizio permanente delle Forze armate, delle Forze di polizia ad ordinamento militare e civile, agli ufficiali e sottufficiali piloti di complemento in ferma dodecennale di cui alla legge 19 maggio 1986, n. 224, e, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 28, comma 1, del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139, al personale appartenente alla carriera prefettizia, trasferiti d'autorità ad altra sede di servizio sita in un comune diverso da quello di provenienza, compete una indennità mensile pari a trenta diarie di missione in misura intera per i primi dodici mesi di permanenza ed in misura ridotta del 30 per cento per i secondi dodici mesi”.

L’interpretazione letterale della citata disposizione - che alla luce dell’art. 12 delle Disposizioni della legge in generale precede in ragione del principio di legalità, quando offre un risultato coerente e non equivoco, ogni altra interpretazione - induce a ritenere che oggi l’indennità di trasferimento abbia una disciplina autonoma e basata su presupposti compiutamente regolati dalla norma in esame, che sono:

a) trasferimento del militare d’autorità;

b) predeterminazione del criterio di quantificazione, che, in sostanza, non è più affidato al meccanismo di rinvio ad altra normativa;

c) ubicazione della nuova sede di servizio in un comune diverso da quello di provenienza.

Non si rinviene, invece, nella lettera della disposizione, alcuna menzione, neanche indiretta, alla necessità di dovere valutare anche l’ulteriore requisito della sussistenza o meno di una distanza minima chilometrica tra le sedi di servizio interessate al trasferimento del militare.

2.1. Ritiene, inoltre, il Collegio che l’orientamento giurisprudenziale invocato dalla sentenza impugnata e sopra richiamato, formatosi sotto la vigenza dell’art. 1 della menzionata l. n. 100 del 1987 - secondo il quale l’indennità di trasferimento contemplata dalla citata normativa mutuava lo stesso regime giuridico dell’indennità di missione (ivi compresa la distanza chilometrica minima di 10 chilometri tra le due sedi) - non può essere correttamente richiamato dopo l’entrata in vigore dell’art. 1 della l. n. 86 del 2001, che si configura quale norma autonomamente disciplinante il beneficio stesso.

Invero, con l’attuale disposizione non si opera alcun rinvio all’intero regime giuridico dell’indennità di missione, non venendo recepito il trattamento economico complessivo di tale indennità, ma la diaria è individuata esclusivamente come parametro di riferimento quantitativo dell’indennità spettante al militare trasferito.

2.2. D’altra parte, non può essere revocato in dubbio che anche il trasferimento d’ufficio in un comune inferiore a 10 chilometri dalla precedente sede di servizio - ancorché rispondente ad un precipuo interesse pubblico ed a specifiche esigenze di servizio dell’autorità disponente - comporta per l’interessato un oggettivo sacrificio, essendo il medesimo costretto ad affrontare nuovi oneri ed ulteriori disagi.

Pertanto, anche sotto questo profilo, appare ragionevole riconoscere l’indennità de qua in chiave compensatrice delle maggiori spese sostenute dal militare

3. In corretta applicazione dei su esposti principi, nel caso di specie, trattandosi di trasferimento disposto ad altra sede di servizio, sita in un comune diverso dalla precedente, va riconosciuto all’originario ricorrente, odierno appellato, il beneficio economico invocato.

Pertanto, l’appello va, in tale parte, accolto.

3. E’ altresì, nella presente sede di appello, da disporre la correzione della sentenza impugnata nella parte in cui il procuratore costituito in primo grado per l’originario ricorrente è indicato con il cognome di “####################”, anziché quello, esatto, di “####################”

Quanto alle spese, si rinvengono giuste ragioni per disporne l’integrale compensazione fra le parti del giudizio, attesa la novità della questione al momento della proposizione dello stesso atto di appello.

P.Q.M.

 


 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei termini di cui in motivazione, annullando per l'effetto la sentenza impugnata.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 novembre 2010 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Giuseppe Severini, Presidente

Luciano Barra Caracciolo, Consigliere, Estensore

Roberto Garofoli, Consigliere

Bruno Rosario Polito, Consigliere

Roberto Giovagnoli, Consigliere

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/11/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)



 

Se la divisa aziendale va indossata nello spogliatoio, al dipendente va retribuito il tempo

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Se la divisa aziendale va indossata nello spogliatoio, al dipendente va retribuito il tempo necessario
Laddove è il datore a stabilire le modalità dell'operazione, come per gli operai in fabbrica, l'attività rientra nella prestazione effettiva. Niente compenso a chi può uscire da casa con l'abito da lavoro: la vestizione è solo «diligenza preparatoria»
(Sezione lavoro, sentenza n. 19358/10; depositata il 10 settembre)


Corte Cassazione Civile, sezione lavoro - Sentenza n. 19358/2010 Riduci

Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro - Sentenza n. 19358 del 10/09/2010
Attività dei lavoratori - Prestazioni per la preparazione all'attività lavorativa finale - Quando non è concessa la facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa, in quanto l'operazione è diretta dal datore di lavoro che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, il tempo impiegato rientra nel lavoro effettivo, e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve corrispondere ad una retribuzione aggiuntiva.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Un gruppo di dipendenti della U. I. srl., con separati ricorsi poi riuniti, convenivano in giudizio la predetta società per chiedere la corresponsione dell’equivalente di venti minuti di retribuzione giornaliera per 45 settimane, a fronte del c.d. “tempo tuta”. Esponevano che per entrare nel perimetro aziendale dovevano transitare per un tornello apribile mediante tesserino magnetico di riconoscimento, indi percorrere cento metri ed accedere allo spogliatoio, ivi indossare gli indumenti di lavoro forniti dall’azienda, effettuare una seconda timbratura del tesserino prima dell’inizio del lavoro; al termine, dovevano effettuare una terza timbratura, accedere allo spogliatoio per lasciare gli abiti di servizio, passare una quarta volta il tesserino al tornello ed uscire.

Deducevano che il tempo occorrente per le suddette operazioni costituiva una “messa a disposizione” delle proprie energie in favore del datore di lavoro, onde il tempo stesso doveva essere retribuito.

2. Si costituiva la società ed eccepiva che nel corso delle operazioni suddette i lavoratori rimanevano comunque liberi di disporre del proprio tempo e non erano sottoposti al potere datoriale, mentre soltanto con l’inizio effettivo del turno di lavoro essi erano sottoposti agli ordini ed alle indicazioni dei superiori gerarchici.

3. Il Tribunale respingeva la domanda attrice, ritenendo che il tempo necessario per la vestizione non costituisse tempo di lavoro retribuito.

Proponevano appello gli attori.

Si costituiva e si opponeva la U., la quale dava atto della conciliazione intervenuta nei confronti di P. P..

La Corte di Appello di (OMISSIS), in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva le domande attrici nella misura - equitativamente determinata - del 50%.

Questa in sintesi la motivazione della sentenza di appello:
- come risulta dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 15734/2003, va considerato tempo di lavoro anche quello in cui il lavoratore si tiene a disposizione del datore di lavoro;
- quando l’obbligo di vestizione della divisa (Cass. n. 3763.1998) deve essere eseguito secondo pregnanti disposizioni del datore di lavoro circa il tempo ed il luogo dell’esecuzione, tale attività risulta “eterodiretta” e quindi dà diritto alla retribuzione;
- applicati tali principi, ne risulta che il tempo impiegato nella vestizione va considerato orario di lavoro;
- ciò risulta confermato dalla direttiva n. 104/1993 della Comunità Europea, recepita nell’art. 1 comma 2 del Decreto Legislativo n. 66/2003 (utilizzata come indicazione interpretativa);
- poiché non è possibile individuare per ciascun attore i tempi effettivamente impiegati per indossare e dismettere gli abiti da lavoro, soccorre una valutazione equitativa ex art. 432 Codice di Procedura Civile.
4. Ha proposto ricorso per Cassazione la U. I. srl., deducendo cinque motivi.

Gli attori sono rimasti intimati.

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, degli artt. 1 e 3 del R.D. n. 692/1923, del R.D. n. 1955/1923, 1 comma 1 del Decreto Legislativo n. 66/2003, del DPR. n. 327.1980, del Decreto Legislativo n. 155/1997, 12 delle Preleggi, 2094, 2104 Codice Civile, 112 e segg. Codice di Procedura Civile, 2997 Codice Civile: la Corte di Appello ha violato la normativa inerente all’orario di lavoro ed il criterio dell’onere della prova, affermando apoditticamente che durante il tempo della vestizione il lavoratore sarebbe a disposizione del datore di lavoro. Viceversa detto tempo non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro. Il lavoratore non è a disposizione del datore di lavoro e non è nell’esercizio delle sue attività. Non vi è sinallagma contrattuale, ma solo un’attività preparatoria per la resa della
prestazione.

6. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, degli artt. 2099 Codice Civile, 36 Cost., omessa motivazione e mancata valutazione della disciplina di cui ai CCNL di settore 1991, 1995 e 1999, degli accordi aziendali, delle regole sull’interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e segg. Codice di Procedura Civile. Trascritte le norme contrattuali sull’orario di lavoro, deduce la ricorrente che la riduzione di orario pari ad un’ora settimanale ha avuto riguardo al lavoro effettivo.

7. Con il terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in fatto circa un punto decisivo della controversia, a sensi dell’art. 360 n. 5 CPC, deducendo l’omesso esame degli accordi sindacali e la mancata applicazione della regola generale dell’assorbimento del trattamento di miglior favore riferibile anche alle pause contrattuali - violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, degli artt. 1362 segg. Codice Civile.

Ogni dipendente può entrare in fabbrica fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno e quando ha indossato l’abito da lavoro è libero di impiegare il tempo come desidera. Tali circostanze sono state capitolate come prova. Segue la trascrizione delle fonti contrattuali e si deduce che l’eventuale credito orario doveva essere compensato, fino a concorrenza, con le riduzioni di orario effettivo.

8. I motivi sopra riportati possono essere esaminati congiuntamente, in quanto tra loro strettamente connessi.

Essi risultano infondati.

La giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, dopo qualche incertezza, si è orientata nel senso che “Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito” Così Cass. n. 15734.2003.

9. Successivamente il principio è ripreso da Cass. n. 19273.2006: “Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito. (Nella specie, riguardante un periodo antecedente alla entrata in vigore del d.lgs. 8 aprile 2003 n. 66 di recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 200/34, la S.C. ha confermato la sentenza di merito
secondo la quale il tempo della vestizione, facendo corpo con quello concernente la obbligazione principale ed attenendo un vincolo che caratterizza inevitabilmente la fase preparatoria, doveva ritenersi già remunerato dalla retribuzione ordinaria, senza necessità di distinguere la retribuzione a seconda dell’esistenza dell’obbligo di indossare o meno gli indumenti da lavoro)”.

10. Più recentemente il principio è confermato da Cass. n. 15492.2009: “L’art. 5 del contratto collettivo nazionale per i lavoratori delle industrie meccaniche private in data 8 giugno 1999 e del contratto collettivo nazionale delle aziende meccaniche pubbliche aderenti all’Intersind, nella parte in cui prevede che sono considerate ore di lavoro quelle di effettiva prestazione, deve essere interpretato nel senso che siano da ricomprendere nelle ore di lavoro effettivo, come tali da retribuire, anche le attività preparatorie o successive allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché eterodirette dal datore di lavoro, fra le quali deve ricomprendersi anche il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, qualora il datore di lavoro ne disciplini il tempo ed il luogo di esecuzione.

Né può ritenersi incompatibile con tale interpretazione la disposizione contenuta nell’art. 5 citato secondo la quale le ore di lavoro sono contate con l’orologio dello stabilimento o reparto, posto che tale clausola non ha una funzione prescrittiva, ma ha natura meramente ordinatoria e regolativa, ed è destinata a cedere a fronte dell’eventuale ricomprensione nell’orario di lavoro di operazioni preparatorie e/o integrative della prestazione lavorativa che siano, rispettivamente, anteriori o posteriori alla timbratura dell’orologio marcatempo”.

11. La giurisprudenza sopra citata conferma che nel rapporto di lavoro deve distinguersi una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 seconda comma Codice Civile) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria.

Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.

12. Con il quarto motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, degli artt. 414, 112, 115 Codice di Procedura Civile, 2797 Codice Civile e “decadenza”: la Corte di Appello ha violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, perché ha accolto una domanda diversa da quella proposta, vale a dire la corresponsione della retribuzione per tutto il tempo intermedio tra l’accesso al primo tornello e l’uscita definitiva dall’azienda.

13. Il quinto motivo del ricorso attiene alla violazione degli artt. 112, 414, 432 Codice di Procedura Civile, 1226 e 2697 Codice Civile, vale a dire la quantificazione della domanda sulla base di un arbitrario esercizio dei poteri equitativi dinanzi ad una carente allegazione dei fatti contenuta nella domanda.

14. Detti due motivi, da esaminarsi anch’essi congiuntamente, sono infondati.

Il giudice di merito non ha accolto una domanda diversa da quella formulata, ma ha attribuito un “quid minus” rispetto a quanto domandato dagli attori, finendo per considerare come tempo di lavoro o tempo a disposizione, eterodiretto, la metà del tempo mediamente impiegato per passare dal primo al secondo tornello e dal terzo al quarto. La relativa liquidazione è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce la norma processuale, con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato.

15. Non avendo la controparte svolto attività difensiva, non vi è luogo a provvedere sulle spese del grado.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso; nulla per le spese del processo di legittimità.

 

 
   

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