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Circolazione stradale. Il sindaco non può adottare ordinanze limitative del traffico

Dettagli

Circolazione stradale. Il sindaco non può adottare ordinanze limitative del traffico È illegittima l'ordinanza con cui il sindaco dispone limitazioni di transito alla viabilità stradale del comune.

ATTI AMMINISTRATIVI   -   CIRCOLAZIONE STRADALE   -   COMUNE E PROVINCIA   -   GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 08-01-2011, n. 10
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

La F. S.p.A., titolare in Comune di Ospitaletto di un impianto siderurgico sito alla locale via Ghidoni, cui accedono quotidianamente autocarri per l'approvvigionamento della materia prima e la spedizione del prodotto finito, impugna l'ordinanza meglio indicata in epigrafe, con la quale il Sindaco ha disposto, con decorrenza dal 13 marzo 2010, ossia decorsi novanta giorni dalla notifica del provvedimento, avvenuta il 3 dicembre 2009, il divieto di transito e di sosta nei due sensi di marcia a tutti i veicoli di massa a pieno carico superiore a 3,5 tonnellate nella detta via Ghidoni, sulla quale si apre il passo carraio che al presente dà accesso al proprio stabilimento, e deduce preliminarmente in punto di fatto che gli automezzi ad essa destinati utilizzano tale via per raggiungerla, e quindi il divieto di transito le arrecherebbe un pregiudizio tale da costringerla a chiudere lo stabilimento, nell'attuale mancanza di accessi alternativi (cfr. p. 1 del ricorso primo paragrafo e p.
7 secondo paragrafo, nonché doc. 10 ricorrente, copia ordinanza impugnata; il fatto storico per cui l'azienda è interessata da un costante flusso di autocarri è incontestato in causa).

A sostegno del ricorso, la F. articola in ordine logico i seguenti tre motivi:

- con il primo di essi, rubricato come secondo a p. 5, deduce incompetenza ai sensi degli artt. 50 e 54 del d. lgs. 18 agosto 2000 n°267, in quanto il Sindaco, al di fuori di una situazione di necessità e urgenza, nella specie ritenuta non ricorrente nei termini di cui appresso, non avrebbe titolo per emettere siffatta ordinanza, appartenente alla competenza dei dirigenti;

- con il secondo di essi, rubricato come primo a p. 3, deduce violazione dell'art. 28 della l. 17 agosto 1942 n°1150. In proposito, premette in punto di fatto di essere consapevole delle difficoltà create al traffico ordinario sulla via Ghidoni dai veicoli che da lunga data la utilizzano per accedere al proprio stabilimento, e di essersi fattivamente adoperata per trovare una soluzione. In particolare, con atto 29 marzo 2007, rep. n°191519 racc. n°8347 Notaro Boletti di Brescia, la F. ha concluso con il Comune di Ospitaletto una convenzione urbanistica, con la quale, nel quadro di un più ampio piano di lottizzazione, asserisce di essersi obbligata a trasferire il proprio accesso carraio sul lato opposto del proprio compendio, ovvero sulla via San Bernardo, nel termine di trentasei mesi dalla ultimazione, a cura del Comune, della nuova viabilità di zona (doc. 1 ricorrente, copia convenzione; il termine di 36 mesi è all'art. 3 comma 2 della stessa). La F. afferma che il Comune
le avrebbe reso noto il completamento dei lavori di viabilità il 10 luglio 2009 (doc. 4 ricorrente, copia lettera in proposito), e che quindi, con l'ordinanza per cui è causa avrebbe illegittimamente disatteso la scadenza convenzionale, costringendola a realizzare in anticipo il nuovo accesso. Fa comunque presente di avere già chiesto e ottenuto il permesso di costruire relativo, n°8172 del 13 novembre 2007 (doc. ti 7 e 8 ricorrente, copie di esso e della pertinente relazione tecnica);

- con il terzo motivo a p. 6, deduce infine eccesso di potere per falso presupposto ovvero difetto di motivazione. In proposito, evidenzia che l'ordinanza impugnata, nelle premesse, motiva il divieto imposto con asserite "situazioni di pericolo per gli utenti della strada" che risulterebbero dalla relazione della Polizia locale di cui in epigrafe (doc. 2 Comune, copia di essa) e asserisce da un lato che la F. avrebbe "regolarmente richiesto e costruito un accesso carraio sito in via san Bernardo", dall'altro che le opere per la sua "riorganizzazione" sarebbero ancora da realizzare. Ciò posto, deduce che tali circostanze non sarebbero state in alcun modo verificate e che comunque il lasso di tempo di novanta giorni concesso per aprire il nuovo accesso sarebbe sproporzionato all'entità dei lavori necessari.

Con memoria 22 ottobre 2010, la ricorrente ha ribadito le proprie ragioni.

Hanno resistito l'amministrazione statale, con memoria formale 28 gennaio 2010, e il Comune, con memorie 5 febbraio e 29 ottobre 2010, nella quali chiede che il ricorso sia respinto, e in particolare:

- in ordine al primo motivo, deduce che la competenza del Sindaco, in assenza come nel caso di specie di un Piano urbano del traffico, deriverebbe dalla norma speciale dell'art. 7 del Codice della strada;

- in ordine al secondo motivo, deduce che l'accesso carrabile sulla via san Bernardo non sarebbe opera di urbanizzazione, e quindi non rientrerebbe nel disposto della convenzione citata;

- in ordine al terzo motivo, deduce di essere intervenuto a fronte di un pregiudizio effettivamente esistente, dopo che la Polizia locale ha inutilmente cercato di regolamentare la situazione mediante ordinari servizi di pattugliamento (cfr. doc. 2 Comune, cit.).

Con ordinanza 16 aprile 2010 n°208 la Sezione accoglieva l'istanza cautelare e sospendeva il provvedimento impugnato; all'udienza del giorno 11 novembre 2010 infine tratteneva la causa in decisione.
Motivi della decisione

Il ricorso è in parte fondato e va accolto, ai sensi e nei limiti di quanto appresso.

1. Risulta anzitutto fondato il primo motivo di ricorso, centrato sull'incompetenza del Sindaco ad emettere ordinanze della specie di quella per cui è causa. La lettera dell'art. 7 del d. lgs. 30 aprile 1992 n°285, ovvero del Codice della strada, assegna al Sindaco il potere di regolamentare la circolazione dei veicoli nei centri abitati, e in ispecie di "limitare la circolazione di tutte o di alcune categorie di veicoli"; la norma peraltro, in quanto risalente al 1992, va coordinata con la norma posteriore dell'art. 107 del d. lgs. 18 agosto 2000 n°267, ovvero del Testo unico degli enti locali, che attribuisce ai soli dirigenti comunali la competenza ad adottare gli atti e i provvedimenti che impegnino l'amministrazione verso l'esterno, ove non ricompresi "espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo degli organi di governo dell'ente" ovvero nelle funzioni, all'evidenza qui non rilevanti, del segretario o del direttore
generale.

2. La competenza già del Sindaco in tema di limitazioni della circolazione deve quindi ritenersi attratta nella competenza propria del dirigente di settore, in quanto si tratta di funzioni di gestione ordinaria; diversamente si potrebbe ritenere solo ove l'intervento di cui si ragiona rivestisse carattere di necessità e urgenza, ai sensi degli artt. 50 e 54 dello stesso TUEL: in tali termini espressamente Cass. civ. sez. II 9 giugno 2010 n°13885, nonché TAR Campania Napoli sez. I 17 dicembre 2009 n°8874 e C.d.S. sez. II, parere 2 aprile 2003 n°1661 ivi citato; solo apparentemente contraria C.d.S. sez. V, 17 settembre 2010 n°6966, in quanto, a lettura della motivazione, si ricava che l'intervento del Sindaco era nel caso deciso giustificato dalle citate ragioni di necessità e urgenza.

3. Nel caso di specie, peraltro, i presupposti dell'intervento straordinario sindacale non ricorrono: solo esaminando la relazione del luglio 2009 della Polizia locale, che riferì sulla situazione di fatto, si apprende che essa era monitorata "da tempo" (v. doc. 2 Comune, cit. ultimo paragrafo); a fronte di ciò, oltretutto, il Sindaco emanò l'ordinanza soltanto nel dicembre successivo. Si prescinde poi dalla circostanza per cui la convenzione con cui le parti pubblica e privata avevano inteso risolvere, nell'ambito di un più ampio assetto di interessi, il problema data già dal 2007 (doc. 1 ricorrente, cit.). E' quindi logico ritenere che vi fosse senz'altro la possibilità di intervenire in via ordinaria.

4. Ciò premesso, l'accoglimento di detto motivo stesso non preclude l'esame dei restanti. In proposito, il Collegio non ignora l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale "la fondatezza della censura di incompetenza dell'autorità che ha emanato l'atto, da esaminarsi prioritariamente rispetto ad ogni altro motivo di ricorso, determina unicamente la rimessione dell'affare all'autorità indicata come competente, in applicazione dell'art. 26 legge n. 1034 del 1971, ed impedisce l'esame delle altre doglianze, che finirebbe, altrimenti, per risolversi in un giudizio anticipato sui futuri provvedimenti dell'organo riconosciuto come competente ed in un vincolo anomalo sulla riedizione del potere": così in motivazione C.d.S. sez. IV 14 maggio 2007 n°2427; conformi anche C.d.S. sez. IV 12 dicembre 2006 n°7271 e 12 marzo 1996 n°310, nonché sez. VI 7 aprile 1981 n°140; nello stesso senso dell'abrogato art. 26 l. TAR è poi interpretabile il vigente art. 34 comma 2 c.p.a., per cui
"In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati".

5. Sempre il Collegio ritiene però che tale orientamento vada inteso in modo corretto. Come risulta dalla stessa decisione 310/1996 citata, infatti, esso si fonda sulla circostanza per cui nel processo amministrativo "non è prevista alcuna forma di integrazione del contraddittorio nei confronti dell'organo amministrativo effettivamente competente", e quindi si spiega con l'esigenza di non vincolare al giudicato un soggetto che al processo non è stato in condizione di partecipare. Non sfugge allora che tale esigenza non sussiste nel caso di specie, in cui si fa questione della competenza di due organi, il dirigente e il Sindaco, pur sempre appartenenti ad un medesimo soggetto giuridico, ovvero al Comune, che nel processo è stato ritualmente evocato ed ha potuto esercitare appieno il proprio diritto di difesa con riguardo a tutte le censure dedotte: così da ultimo nella giurisprudenza di questo TAR la sentenza sez. II 8 luglio 2010 n°2479.

6. Ciò premesso, il secondo e il terzo motivo, che vanno esaminati congiuntamente in quanto all'evidenza connessi, sono entrambi a loro volta fondati. In termini generali, una limitazione della circolazione stradale, che si risolve in una limitazione della sfera di libertà del cittadino, va operata nel rispetto del principio di proporzionalità, proprio del diritto nazionale come, più in generale, del diritto dell'Unione. Come è noto -si vedano per tutte C.d.S. sez. V 14 aprile 2006 n°2087, dalla quale le citazioni, ma anche C.d.S. sez. V 11 dicembre 2007 n°6383, concernente proprio limitazioni al traffico automobilistico- tale principio comporta poi un'indagine "trifasica". In particolare, esso impone in primo luogo di verificare la "idoneità" del provvedimento, ovvero il " rapporto tra il mezzo adoperato e l'obiettivo perseguito: in virtù di tale parametro "l'esercizio del potere è legittimo solo se la soluzione adottata consenta di raggiungere l'obiettivo". Impone poi di
verificare la sua "necessarietà", ovvero la "assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo ma tale da incidere in misura minore sulla sfera del singolo": in tal senso la scelta tra tutti i mezzi astrattamente idonei deve cadere su quella "che comporti il minor sacrificio". Impone infine di verificare la "adeguatezza", cioè la "tollerabilità della restrizione che comporta per il privato: sotto tale profilo l'esercizio del potere, pur idoneo e necessario, è legittimo solo se rispecchia una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, in caso contrario la scelta va rimessa in discussione".

7. Nel caso di specie, tale valutazione è stata soltanto parziale quanto all'interesse pubblico, ed è mancata in modo completo quanto all'interesse privato. Sotto il primo profilo, la già citata relazione 15 luglio 2009 della Polizia locale (doc. 2 Comune, cit.) dà conto di una situazione "potenzialmente pericolosa" nella via interessata, dovuta in particolare all'ostacolo costituito dagli autocarri "in sosta" per la visuale dei conducenti di altri veicoli; non spiega però per qual motivo tale situazione sia fonte di una pericolosità non fronteggiabile con i mezzi ordinari, ovvero attraverso i pattugliamenti già posti in essere, e sia soprattutto tale da richiedere una misura di massimo rigore come il divieto tanto di transito quanto di sosta nelle ventiquattro ore.

8. Sotto il secondo profilo, l'astratta qualificazione di un accesso carrabile come opera di urbanizzazione primaria o come opera di altro tipo potrebbe forse dare adito a discussioni, in assenza di norme espresse sul punto, così come ha puntualizzato la difesa del Comune. Ad avviso del Collegio, però, nella specie la questione astratta non rileva, perché si controverte di un accesso carrabile così come considerato nel quadro della citata convenzione urbanistica 29 marzo 2007 (doc. 1 ricorrente, cit.).

9. Tale documento contrattuale, alla p. 5 Par. 2 dell'art. 3, assegna alla ricorrente il termine di trentasei mesi, decorrente dal 10 luglio 2009 come si è detto in narrativa, per realizzare le "opere di urbanizzazione, come successivamente descritte", e in prosieguo, alla p. 7 primo rigo, comprende fra le opere in questione le "strade veicolari previste dal piano di lottizzazione", fra le quali, come risulta dal doc. 3 ricorrente citato ed è sostanzialmente non contestato, quella sulla quale dovrebbe aprirsi il futuro accesso allo stabilimento, destinato a sostituire quello sulla via Ghidoni. Un'interpretazione del contratto conforme al canone di buona fede di cui all'art. 1366 non può quindi non ricomprendere nella realizzazione della strada anche quella dell'accesso carraio alla medesima, che ne è un accessorio, e realizzato in via autonoma dalla stessa non avrebbe utilità alcuna. E'poi pacifico in causa che il nuovo accesso non esiste ancora, e che quindi la ricorrente non
avrebbe potuto conformarsi all'ordinanza utilizzando la nuova struttura.

10. In tali termini, l'ordinanza impugnata non precisa in alcun modo quali esigenze, da ritenere secondo logica sopravvenute alla convenzione 29 marzo 2007 e all'assetto di interessi da essa individuato, abbiano reso per il Comune necessario ridurre in modo assai considerevole il termine già assegnato al privato per regolarizzare la situazione, superando l'affidamento che nel privato stesso era sorto in forza del contratto; per tali ragioni va quindi annullata.

11. La domanda di annullamento va invece dichiarata inammissibile per difetto di interesse in quanto rivolta avverso la più volte citata relazione 15 luglio 2009 della Polizia locale di Ospitaletto, che, come si è detto e come del resto risulta a semplice lettura (v. doc. 2 Comune, cit.), si limita a descrivere la situazione dei luoghi, e costituisce quindi un atto istruttorio privo di qualsiasi autonoma attitudine lesiva: sul principio, si veda per tutte da ultimo C.d.S. sez. V 17 febbraio 2010 n°919.

12. Le ragioni della decisione, e in particolare il suo carattere sostanzialmente interpretativo dei pregressi accordi fra le parti, sono giusto motivo per compensare le spese. Comportando peraltro la presente pronuncia l'accoglimento della domanda della ricorrente, il solo Comune intimato, autore dell'ordinanza, va condannato a rifondere il contributo unificato in quanto soccombente, ai sensi dell'art. 13 comma 6 bis T.U. 115/2002.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così provvede:

a) accoglie in parte la domanda di annullamento e per l'effetto annulla l'ordinanza 1 dicembre 2009 n°198 del Sindaco del Comune di Ospitaletto;

b) dichiara inammissibile la domanda di annullamento quanto alla relazione 15 luglio 2009 della Polizia locale di Ospitaletto;

c) compensa per intero le spese di lite fra le parti e condanna il Comune di Ospitaletto a rifondere alla ricorrente F. S.p.A. l'importo del contributo unificato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
 

Infortuni su lavoro. Comportamento dei datori di lavoro

Dettagli

Infortuni su lavoro. Comportamento dei datori di lavoro: devono avere la “forma mentis” del garante della sicurezza e controllare l’operato dei lavoratori con continua diligenza fino alla “pedanteria”.

 

Corte di Cassazione – Sezione IV Penale - Sentenza n. 31679 del 11 agosto 2010 -  Pres. Mocali – Est. Romis– P.M. Stabile - Ric. R. G. - Un chiaro messaggio dalla Corte di Cassazione sugli obblighi e sul comportamento dei datori di lavoro: devono avere la “forma mentis” del garante della sicurezza e controllare l’operato dei lavoratori con continua diligenza fino alla “pedanteria”.


INFORTUNI SUL LAVORO   -   OMICIDIO COLPOSO
Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 08-06-2010) 11-08-2010, n. 31679
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

R.G. e S.M. venivano tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Trento per rispondere del reato di cui agli artt. 113 e 590 c.p., perchè il R. in qualità di amministratore unico della Rigotti s.p.a., esecutrice dei lavori di costruzione di tre palazzine per conto dell'I.T.E.A. presso il cantiere di (OMISSIS), alle cui dipendenze lavorava C. G., ed il S. in qualità di preposto della Rigotti s.p.a., in cooperazione tra loro, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, e/o imperizia, nonchè per violazione dell'art. 2087 c.c. ed inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro (D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 24 e 10), avevano cagionato lesioni personali gravi (con indebolimento permanente dell'organo della deambulazione) al C. in conseguenza di infortunio sul lavoro verificatosi secondo la seguente dinamica per come descritta nel capo di imputazione: il C., unitamente ad alcuni colleghi, era intento a fissare un parapetto (costituito da un prefabbricato in
cemento armato) al poggiolo del secondo piano di una delle palazzine erigende; il C. si trovava sul piano di calpestio del ponteggio allestito all'esterno del poggiolo mentre gli altri operai lavoravano su quest'ultimo; al fine di consentire il passaggio e la posa in opera del parapetto, su indicazione di S.M., i lavoratori stavano provvedendo a rimuovere tutte le protezioni prima ivi installate (parapetti, tavole fermapiede, correnti intermedi e cavalletti); nell'eseguire le operazioni di fissaggio, il parapetto del balcone si era improvvisamente spostato verso l'esterno, così spingendo anche il C.; non essendovi più alcuna protezione laterale, il C. stesso, il quale non indossava nemmeno un'idonea cintura di sicurezza, era caduto dal ponteggio precipitando al suolo da un'altezza di circa sei metri riportando lesioni gravissime.

Per la parte che in questa sede rileva, il suindicato Tribunale, all'esito del giudizio svoltosi con il rito abbreviato condizionato, dichiarava entrambi gli imputati colpevoli del reato loro ascritto, condannandoli alla pena ritenuta di giustizia oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita da liquidarsi in separato giudizio.

A seguito di gravame ritualmente interposto dagli imputati, la Corte d'Appello di Trento confermava l'affermazione di colpevolezza pronunciata dal primo giudice e motivava il proprio convincimento con argomentazioni che possono così sintetizzarsi: Posizione S. - Il giorno del fatto, il S. si trovava sul posto e, in assenza del direttore tecnico di cantiere e del capocantiere, ed essendo stato nominato assistente di cantiere per affiancare il direttore, ricopriva quanto meno il ruolo di preposto a norma del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 3, ed era stato lui a dare le disposizioni relative alla posa in opera del parapetto, così determinando le condizioni di pericolo per il C. sprovvisto di qualsiasi protezione verso il vuoto e privo della cintura di sicurezza il cui uso non gli era stato imposto da alcuno; dalle testimonianze assunte era emerso che gli ordini di lavoro erano impartiti dal S. il quale anche in occasione dell'infortunio in oggetto aveva provveduto a dare tutte le
disposizioni relative alle modalità di lavoro per la posa in opera del parapetto; di tal che, il S. aveva assunto, in relazione alle mansioni effettivamente svolte, il ruolo di preposto secondo i criteri individuati e precisati nella giurisprudenza di legittimità;

Posizione R. - Quanto al R., avuto riguardo alla sua veste di amministratore unico della Rigotti s.p.a., ed in quanto legale rappresentante della società, era il principale garante della sicurezza degli operai; il piano di sicurezza, finalizzato alla individuazione dei rischi in relazione alle attività lavorative da svolgere, la cui predisposizione rientra tra gli oneri che incombono sul datore di lavoro, non prevedeva l'installazione di un parapetto prefabbricato in cemento armato che, comportando necessariamente la rimozione della parte superiore del ponteggio, avrebbe reso il ponteggio stesso, in quanto privato dei parapetti, assolutamente inidoneo a salvaguardare l'incolumità dei lavoratori, esponendo costoro al rischio di caduta, rischio poi effettivamente concretizzatosi; la mancata previsione dei rischi connessi all'installazione dei parapetti prefabbricati - il cui montaggio metteva in crisi il sistema di sicurezza realizzato con la predisposizione del solito ponteggio
fisso - e la omessa prescrizione di misure di sicurezza idonee a prevenire il rischio di caduta dall'alto (al quale sarebbe stato possibile ovviare con l'uso della cesta applicata al braccio mobile di una macchina operatrice), costituivano evidenti profili di colpa a carico del R.;

sussisteva all'evidenza il nesso di causalità tra la condotta del R. e l'evento, posto che la previsione del rischio riconducibile alla posa in opera del parapetto e l'adozione delle opportune misure di sicurezza avrebbero di certo impedito che si verificasse l'infortunio in danno del C.; la disposizione impartita dal S. - di togliere parte del ponteggio - non poteva essere considerata causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, perchè detto ordine rappresentò lo sviluppo consequenziale dell'originaria omissione del datore di lavoro; il R., quale datore di lavoro, era anche venuto meno al suo obbligo di formare ed informare non solo il preposto, ma anche i singoli lavoratori in relazione agli specifici fattori di rischio cui i lavoratori stessi erano di fatto esposti: il parapetto poteva essere montato in sicurezza con un ponte sviluppabile e non erano state predisposte misure di sicurezza alternative come, per esempio, l'uso della cintura di sicurezza.

Ricorre per Cassazione il R. svolgendo argomentazioni, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, che possono così riassumersi: 1) la caduta del C. dall'alto sarebbe stata conseguenza esclusiva della condotta degli operai, ivi compreso lo stesso C., per non aver osservato regole di comune esperienza avendo provveduto ad eseguire un'operazione di montaggio, rimuovendo una struttura deputata proprio alla sicurezza dei lavoratori: nè sarebbe stato possibile prevedere un rischio derivante dallo smontaggio ad opera dello stesso lavoratore infortunato di una struttura posta a presidio della sua sicurezza;

2) anche se il piano di sicurezza avesse previsto il rischio in argomento, la autonoma condotta del S. - concretizzatasi nell'ordine di rimuovere parte del ponteggio - sarebbe risultata causa di per sè idonea a determinare l'evento: la responsabilità commissiva del S. sarebbe incompatibile con la responsabilità di natura omissiva che sarebbe stata integrata dal datore di lavoro:

donde la contraddittorietà riscontrabile nel percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito; 3) sarebbe apodittica l'affermazione della Corte distrettuale, secondo cui il R. avrebbe omesso di formare ed informare i lavoratori in ordine ai rischi connessi all'attività lavorativa, non avendo il P.M. addotto alcun concreto elemento probatorio al riguardo, e non potendo ipotizzarsi a carico dell'imputato un onere di prova contraria; 4) la Corte avrebbe errato nel ricondurre la responsabilità dell'infortunio in oggetto al datore di lavoro, non avendo considerato che il R. aveva nominato un Responsabile della sicurezza in fase di esecuzione nella persona del geom. Co.Lo., ed un vero e proprio Responsabile della sicurezza nella persona dell'architetto A.N..
Motivi della decisione

Il ricorso deve essere rigettato,per l'infondatezza delle censure dedotte. La mancata indicazione nel piano di sicurezza dei rischi connessi al montaggio dei parapetti - la cui installazione, comportando la rimozione della parte superiore del ponteggio, rendeva inidoneo, ai fini della sicurezza dei lavoratori, il tradizionale ponteggio fisso - e la assoluta mancanza di quelle specifiche misure di sicurezza particolarmente indicate per il lavoro da svolgere (l'uso di una cesta applicata al braccio mobile di una macchina operatrice oppure l'uso della cintura di sicurezza), costituiscono evidenti profili di colpa riconducibili al ruolo del R., quale datore di lavoro, la cui condotta omissiva, così individuata e precisata, si pone in palese nesso di causalità con l'infortunio in oggetto; nemmeno potrebbe giovare alla posizione del R. l'eventuale adempimento (peraltro escluso dai giudici di merito) dell'obbligo della formazione e dell'informazione dei lavoratori, non avendo poi, il R.
stesso, in concreto,fornito ai lavoratori i dovuti presidi di sicurezza: è logico ritenere, comunque, che, trattandosi di rischio neanche previsto nel piano di sicurezza, sul punto non vi sia stata formazione ed informazione dei lavoratori.

La tesi difensiva del ricorrente - secondo cui l'evento sarebbe riconducibile ad altri soggetti - è infondata.

Il compito del datore di lavoro è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori, e dalla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla predisposizione di queste misure: di tal che, ove dette misure consistano in particolari cose o strumenti, è necessario che questi strumenti siano messi a portata di mano del lavoratore. Il datore di lavoro deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore, e non deve perciò limitarsi ad informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro (cfr., Sez 4, 3 marzo 1995, Grassi). Sul punto ebbero modo di intervenire anche le Sezioni Unite di questa Corte,enunciando il principio secondo cui "al fine di escludere la responsabilità per reati colposi dei soggetti obbligati
D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, ex art. 4 a garantire la sicurezza dello svolgimento del lavoro, non è sufficiente che tali soggetti impartiscano le direttive da seguire a tale scopo, ma è necessario che ne controllino con prudente e continua diligenza la puntuale osservanza" (conf. Sez. 4, 25.9.1995, Morganti, secondo cui le norme antinfortunistiche impongono al datore di lavoro una continua sorveglianza dei lavoratori allo scopo di prevenire gli infortuni e di evitare che si verifichino imprudenze da parte dei lavoratori dipendenti). Quanto alla condotta del lavoratore, è sufficiente ricordare il consolidato orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme (Sez. 4, n. 40164 del 03/06/2004 Ud. - dep. 13/10/2004 - Rv, 229564, imp. Giustiniani): deve definirsi imprudente il comportamento del lavoratore che
sia stato posto in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - oppure rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (in tal senso, "ex plurimis", Sez. 4, Sentenza n. 25532 del 23/05/2007 Ud. - dep. 04/07/2007 - Rv.

236991); orbene, in relazione ai principi così enunciati, nel caso di specie non può certo definirsi abnorme il comportamento del C.. E' stato altresì condivisibilmente precisato che le norme sulla prevenzione degli infortuni hanno la funzione primaria di evitare che si verifichino eventi lesivi della incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, "anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuale disaccortezza, imprudenza e disattenzione degli operai subordinati" (in termini, Sez. 4, 14 dicembre 1984, n. 11043; in tal senso, "ex plurimis", anche Sez. 4, n. 4784 del 13/02/1991 - dep. 27/04/1991 - imp. Simili ed altro, RV. 187538). Se è vero, infine, che destinatari delle norme di prevenzione, contro gli infortuni sul lavoro, sono non solo i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti, ma anche gli stessi operai, giova ricordare, tuttavia, che l'inosservanza di dette norme da parte dei datori di lavoro, dei
dirigenti e dei preposti ha valore assorbente rispetto al comportamento dell'operaio, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano adempiute le prescrizioni di loro competenza (cfr. Sez. 4, n. 10121 del 23/01/2007 Ud. - dep. 09/03/2007 - Rv. 236109 imp.: Masi e altro).

Neppure può dirsi che il nesso di causalità tra la condotta colposa del R. e l'evento sia stato interrotto dalle disposizioni impartite dal S. al C. ed agli altri lavoratori in occasione dell'infortunio "de quo". La Corte territoriale, nel disattendere l'assunto difensivo del R. in proposito, ha correttamente osservato che l'ordine impartito dal S. rappresentò lo sviluppo consequenziale dell'originaria condotta colposa del datore di lavoro. Al riguardo, è sufficiente ricordare il consolidato indirizzo interpretativo, delineatosi nella giurisprudenza di legittimità - che anche in questa circostanza deve essere ribadito perchè del tutto condivisibile - per il quale "in tema di rapporto di causalità, ai sensi dell'art. 41 c.p., u.c., secondo cui "le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui", il nesso di causalità non resta escluso dal fatto volontario altrui, cioè quando l'evento è
dovuto anche all'imprudenza di un terzo o dello stesso offeso, poichè il fatto umano, involontario o volontario, realizza anch'esso un fattore causale, al pari degli altri fattori accidentali o naturali" (in termini, Sez. 4, 6 maggio 1986, Ori, RV 172820). Ancora, mette conto sottolineare che questa Corte ha avuto modo di precisare ulteriormente che "in tema di reati colposi, per escludere il nesso causale (rispetto alla condotta dell'agente) non è sufficiente che nella produzione dell'evento sia intervenuto un fatto illecito altrui, ma è necessario che tale fatto configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista nè prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l'evento" (in termini, Sez. 4, 15 dicembre 1988, Scognamiglio, RV 180738).

Del tutto generica ed assertiva è infine la doglianza del R. circa la nomina di taluni soggetti quali Responsabili della sicurezza, non avendo il ricorrente sviluppato alcuna specifica considerazione al riguardo. Peraltro, giova ribadire che la dinamica dell'infortunio in oggetto trova la sua origine nella predisposizione da parte del R. di un Piano di sicurezza in cui non erano stati previsti i rischi connessi al montaggio dei parapetti: profilo di colpa, questo, riconducibile alla specifica posizione di garanzia del R. quale datore di lavoro.

Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; il ricorrente va altresì condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente giudizio che si liquidano in complessivi Euro 2.500,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente giudizio liquidate in complessivi Euro 2.500,00, oltre accessori come per legge.
 

Porto d'armi per difesa:

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Porto d'armi per difesa: se nulla è cambiato rispetto alla condizione che ha consentito il rilascio non può essere negato il rinnovo
N. 08220/2010 begin_of_the_skype_highlighting              08220/2010      end_of_the_skype_highlighting REG.SEN.

N. 01318/2010 begin_of_the_skype_highlighting              01318/2010      end_of_the_skype_highlighting REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1318 del 2010, proposto dal:
Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;


contro

#################### Di ####################, rappresentato e difeso dall'avv. ---

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. ABRUZZO - SEZIONE STACCATA DI PESCARA- SEZIONE I n. 01230/2009 begin_of_the_skype_highlighting              01230/2009      end_of_the_skype_highlighting, resa tra le parti, concernente RIGETTO ISTANZA RINNOVO LICENZA DI PORTO DI PISTOLA PER DIFESA PERSONALE




Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di #################### Di ####################;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 ottobre 2010 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Guzzo per Ciprietti e l’Avvocato dello Stato Barbieri;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.




FATTO

Con il ricorso di primo grado l’appellante odierno aveva impugnato il decreto in data 16 settembre 2009 con il quale il Prefetto di Pescara aveva respinto la sua istanza intesa ad ottenere il rinnovo della licenza di porto di pistola per uso difesa personale.

Con quel gravame, si era evidenziato che l’interessato, soggetto incensurato e senza carichi pendenti, era titolare del permesso da numerosi anni, con rinnovo annuale: egli svolgeva il mestiere di ristoratore e, in quanto esposto ad aggressioni e rapine, era legittimato ad ottenere il prescritto titolo abilitativo.

Con il provvedimento il Prefetto aveva negato il rinnovo del titolo e l’odierno appellato era insorto prospettando i vizi di violazione di legge, eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, errore sui presupposti e conseguente travisamento, inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto, illogicità, sviamento, ingiustizia grave e manifesta.

Il Tribunale amministrativo regionale ha accolto l’impugnazione, ritenendo la carenza motivazionale del provvedimento impugnato, che si limitava ad affermare che la licenza di porto d’armi era stata a suo tempo concessa in considerazione dell’attività di ristoratore, ma che dagli accertamenti svolti non si ravvisava la necessità di girare armato.

Detta motivazione non appariva all’interessto esaustiva, sia per l’apoditticità delle affermazioni, sia perché non si esternavano le ragioni del mutamento di situazione soggettiva ed oggettiva: pur essendo consentito all’amministrazione di mutare opinamento, le ragioni dovevano essere spiegate al cittadino: ne conseguiva la illegittimità dell’impugnato decreto.

La sentenza è stata appellata dall’Amministrazione, che ne ha contestato la fondatezza evidenziando che la statuizione prefettizia doveva reputarsi legittima e che apodittico appariva l’iter motivazionale della sentenza. Questa andava annullata in quanto non aveva tenuto conto che l’amministrazione aveva adottato la determinazione sulla base di un dato – quello proveniente dalla Questura di Pescara- secondo il quale, avuto riguardo alla complessiva situazione dell’ordine pubblico nell’area interessata, l’appellato, pur titolare di due esercizi di ristorazione, non necessitava del porto d’arma.

L’errore riposava semmai nelle pregresse statuizioni ampliative, emendabili in autotutela; ne discendeva la correttezza dell’azione amministrativa spiegata, fondata su complessive valutazioni incentrate su dati statistici della criminalità sul territorio e su quelli relativi al controllo di zona in atto espletato dalle forze di polizia.

L’appellato ha chiesto che l’appello venga dichiarato inammissibile ovvero respinto nel merito, evidenziando che sussistevano le condizioni per il rilascio del titolo; ha fatto presente che sussisteva la medesima situazione di fatto in relazione alla quale (già a far data dal 1998) aveva ininterrottamente goduto del beneficio (in assenza di contestazioni circa l’uso fattone); che non aveva avuto conoscenza della nota dell’amministrazione dell’11 settembre 2009 che - comunque non contenendo alcunché di innovativo - impingeva nel divieto di ius novorum di cui all’art. 345 del Codice di procedura civile, fermo il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.

L’’appellato stesso afferma che era titolare di due esercizi di ristorazione (“Fattoria Fernando” e “Villa Sirio”) ubicati in aree isolate; uno aveva una capienza di più di 400 posti; custodiva con sistematicità gli incassi e percorreva ogni notte itinerari ubicati in aperta campagna: ricorrevano tutte le condizioni di legge per il rinnovo del titolo.

DIRITTO

L’appello è infondato e va respinto, nei termini di cui alla motivazione che segue con conseguente conferma della appellata sentenza.

Non mette conto soffermarsi sull’eccezione di inutilizzabilità formulata dall’appellata riguardo alla nota della Questura di Pescara dell’11 settembe 2009 in quanto essa non aggiunge alcunché – sotto il profilo motivazionale ed istruttorio- a quanto in precedenza conosciuto.

Appare invece utile riassumere recenti orientamenti della giurisprudenza in materia di verifica della permanenza in capo al privato dei requisiti legittimanti la detenzione di armi (per difesa ed ad uso caccia). L’indirizzo prevalente afferma che la revoca della licenza del porto di fucile costituisce esercizio del potere di cui all'art. 43 r.d. 18 giugno 1931 n. 773, che implica una valutazione discrezionale sull'affidabilità del titolare della licenza ai fini dell'uso dell'arma (Cons. Stato, VI, 22 maggio 2006, n. 2945).

Si è pertanto affermato che sono legittimi il divieto di detenere armi, munizioni ed esplosivi e la revoca del permesso al porto di pistola disposti sulla base di una serie di fatti i quali, nell'apprezzamento dell'amministrazione, possono indurre in quel momento ad ipotizzare un uso improprio dell'arma in modo da non recare danno ed altri. (tra le tante, si veda Cons. Stato, VI, 23 giugno 2006, n. 3992).

Sotto il profilo della consistenza del dato probatorio sotteso alla valutazione amministrativa, si è considerato che ai fini della revoca del porto d'armi è sufficiente che sussistano elementi indiziari circa la mera probabilità di un abuso dell'arma da parte del privato (es., Cons. Stato, VI, 7 novembre 2005, n. 6170).

Quanto alle condotte che possono essere a base della revoca della licenza,è consolidata la tesi (che vi ricomprende anche le mere disattenzioni e le mancanze di diligenza) per cui ai fini della revoca del porto d'armi, "abuso" dell'arma non è solo il suo uso illegittimo, ma anche l'omissione delle cautele dirette ad impedire che persone diverse dal titolare possano impadronirsene e servirsene ; pertanto, legittimamente è disposta la revoca a chi abbia lasciato una pistola in un'autovettura parcheggiata, senza curarsi di chiuderla, e che per tale circostanza abbia subito il furto della macchina e della pistola (Cons. Stato, I, 10 giugno 1977, n. 1538).

Ai sensi dell’art. 39 r.d. 18 giugno 1931 n. 773, può essere vietata la detenzione delle armi a quanti ritenuti capaci di abusarne; e pergli artt. 11 e 43 la licenza di porto d’armi può essere ricusata a quanti non danno affidamento di non abusare delle armi. Tale disciplina è a presidio dell'ordine e della sicurezza pubblica, alla prevenzione del danno che possa derivare a terzi da indebito uso e inosservanza degli obblighi di custodia, nonché della commissione di reati che possano essere agevolati dall'utilizzo del mezzo di offesa.

I provvedimenti di autorizzazione alla detenzione e del porto di armi postulano quindi che il destinatario sia indenne da mende, osservi una condotta di vita improntata a puntuale osservanza delle norme penali e di tutela dell'ordine pubblico, nonché delle comuni regole di buona convivenza civile, sì che non possano emergere sintomi e sospetti di utilizzo improprio dell’arma in pregiudizio ai tranquilli ed ordinati rapporti con gli altri consociati.

Il potere di vietare la detenzione di armi a carico di quanti sono ritenuti capaci di abusarne, configura un potere di valutazione discrezionale, da esercitarsi con prevalente riguardo all’interesse pubblico all’incolumità dei cittadini ed alla prevenzione del pericolo di turbamento che può derivare dall’eventuale uso delle armi, in riferimento alla condotta ed all’affidamento che il soggetto può dare in ordine alla possibilità di abuso delle stesse. A tale affermazione consegue, tra l’altro, che, considerato il carattere preventivo delle misure di polizia, non è richiesto che vi sia stato un oggettivo ed accertato abuso da parte dell’interessato, essendo sufficiente che – sulla base di elementi obiettivi – se ne dimostri una scarsa affidabilità nell’uso delle armi, o un’insufficiente capacità di dominio dei propri impulsi ed emozioni (Cons. Stato, IV, 26 gennaio 2004, n. 238).

Analogamente, con riferimento alla revoca della licenza di porto d’armi ai sensi dell’art. 11, nonsi richiede un oggettivo ed accertato abuso, ma è sufficiente che il soggetto non dia affidamento di non abusarne e risultando, perciò, legittima – nonostante non ricorra alcuna delle ipotesi direttamente descritte dalla legge – la revoca dell’autorizzazione in base al motivato convincimento dell’Amministrazione circa la prevedibilità dell’abuso dell’autorizzazione.

Il dato complessivo che da questi orientamenti si ricava è che la valutazione amministrativa è di lata discrezionalità,e che l’esercizio di questa discrezionalità non è suscettibile di un sindacato nel merito, ma solo riguardo all’uso distorto che se ne possa fare. D’altro canto, a valutazione circa la disponibilità effettiva di un’arma a fini di difesa risente della necessità che, stante il potenziale pericolo rappresentato dal possesso e dall’utilizzo dell’arma, l’amministrazione si cauteli mercè un giudizio prognostico che, ex ante, escluda la possibilità di abuso.

Tale valutazione favorevole all’appellato è riscontrabile nel caso di specie.

Invero risulta che l’appellato non ha mai abusato del titolo; che la sua attività professionale è la medesima che diede luogo al rilascio del medesimo; che detta attività lo espone a possibili iniziative criminali.

Non è in discussione il potere dell’amministrazione di agire in autotutela con riguardo al titolo, ma i parametri cui ancorare detto esercizio dell’autotutela.

Esattamente, ritiene il Collegio, il Tribunale amministrativo ha considerato che il provvedimento negativo impugnato era carente di motivazione. Avrebbe infatti l’Amministrazione dovuto esternare adeguatamente le ragioni per cui l’interessato, già da essa ritenuto (sin dal 1998) abile alla detenzione, non era più da considerare tale. Ma una tale necessaria esposizione di ragioni difetta nell’atto impugnato. Il che concreta la denunciata illegittimità, perché non spiega le cause di questa discontinuità nella valutazione amministrativa, che si risolve in una restrizione di facoltà prima riconosciute all’interessato.

Al di fuori di generiche considerazioni in materia di ordine pubblico, non è stata invero prospettata ragione alcuna del perché l’appellato, che del titolo abilitativo non ha mai abusato, fosse divenuto non meritevole del rinnovo. Neppure è dato conoscere quale rilevante mutamento complessivo della situazione dell’ordine pubblico legittimasse uno specifico giudizio di insussistenza del pericolo.

Esattamente il Tribunale amministrativo regionale ha colto tale carenza ed ha ritenuto illegittimo il provvedimento reiettivo.

L’appello proposto va dunque respinto.

Sussistono le condizioni di legge per compensare le spese processuali sostenute dalle parti a cagione della complessità in fatto delle questioni devolute all’esame del Collegio.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto lo respinge e per l’effetto conferma nei termini di cui alla motivazione la sentenza appellata.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 ottobre 2010 con l'intervento dei magistrati:



Giuseppe Severini, Presidente

Roberto Garofoli, Consigliere

Bruno Rosario Polito, Consigliere

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore





   
   
L'ESTENSORE  IL PRESIDENTE
   
   
   
   
   

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/11/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)



 

 

lavoro straordinario e l'indennità di produttività (ma anche indennità per lavoro notturno...

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APPELLO CIVILE   -   GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA   -   IMPIEGO PUBBLICO
Cons. Stato Sez. VI, Sent., 21-12-2010, n. 9309
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

Con le (identiche nel tessuto motivazionale) sentenze gravate il T.A.R. per la Sardegna ha respinto gli identici ricorsi proposti per l'accertamento del trattamento di fine rapporto, nonché per la condanna delle Gestione governativa delle Ferrovie della Sardegna a riliquidare tale trattamento comprendendo nella base di calcolo ogni emolumento con carattere di fissività e continuatività, in specie i compensi percepiti per lavoro straordinario e l'indennità di produttività (ma anche indennità per lavoro notturno, indennità per lavoro festivo, indennità mensa, premio assiduità, indennità di trasferta, festività, indennità di presenza, indennità di percorrenza, competenze per arretrati, indennità giornaliera, competenze per miglioramenti contrattuali).

Con i ricorsi di primo grado, infatti, le odierne parti appellanti, già dipendenti dell'Ente appellato, avevano lamentato che quest'ultimo aveva prodotto parzialmente ed in modo incompleto (e soltanto a seguito di ordine giudiziale impartito con sentenza dallo stesso Tar Sardegna) la documentazione sottesa al calcolo del TFR, impedendogli di controllare compiutamente la correttezza dal procedimento determinativo, che comunque appariva errato a cagione della omessa inclusione delle predette voci retributive.

Disattesa l'eccezione di improponibilità del mezzo di primo grado formulata dalla appellata Amministrazione (secondo la tesi da questa patrocinata le pretese avanzate nei mezzi di primo grado riguardavano questioni antecedenti il 30 giugno 1998 ma i ricorsi sebbene notificati entro la data prevista dalla legge erano stati depositati successivamente), il Tar ha reso identiche pronunce reiettive richiamando i principi consolidati in tema di necessaria continuità della erogazione al fine del computo nella indennità di fine rapporto delle somme percepite in costanza di rapporto ed evidenziando la carenza probatoria e la genericità del petitum (in ordine alla quale la circostanza che l'Amministrazione non avrebbe compiutamente adempiuto all'ordine derivante dalla sentenza del Tar sulla istanza di accesso a suo tempo presentata non poteva comportare una inversione dell'onere della prova).

Le sentenze suindicate sono state appellate dalle originarie parti ricorrenti che ne hanno contestato la fondatezza proponendo identici articolati motivi di impugnazione ed evidenziando che la quantificazione operata dall'Amministrazione doveva reputarsi illegittima: del tutto apodittico appariva l'iter motivazionale seguito dal Tar con le appellate statuizioni.

Le sentenze secondo le parti ricorrenti dovrebbero essere annullate in quanto, tra l'altro, non hanno tenuto conto della circostanza che l'Amministrazione aveva adottato le determinazioni sulla base di criteri e calcoli (e documentazione sottesa) non ostesi e pertanto non verificabili dalle parti appellanti (di guisa che si reiteravano le richieste di emissione di ordine di esibizione della predetta documentazione, al contempo censurandosi l'operato del Tar che tali istanze aveva disatteso).

Essi avevano unicamente chiesto che nel computo del TFR venissero inserite le somme corrisposte loro in modo continuativo e non occasionale (ciò in adesione alla costante giurisprudenza ordinaria di legittimità); analoghi ricorsi proposti innanzi al giudice del lavoro avevano dato esito favorevole per i lavoratori (versanti nella identica posizione degli odierni appellante) e sfavorevole per il GCF della Sardegna.
Motivi della decisione

La palese connessione oggettiva e la parziale connessione soggettiva impone la riunione e la trattazione congiunta dei relativi appelli (si veda, sul punto, ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 17 giugno 2003, n. 3415, laddove si è condivisibilmente affermato che "possono essere riuniti e definiti con un'unica decisione anche gli appelli rivolti avverso sentenze diverse, ove comportanti la soluzione di identiche questioni sollevate nei riguardi dei medesimi provvedimenti impugnati in primo grado."): il nuovo codice del processo amministrativo (si vedano,esemplificativamente, gli artt. 70 e 72) peraltro, contiene disposizioni dalle quali si trae il convincimento della persistente la fondatezza di tale prospettazione, coerente con esigenze di celerità e speditezza processuale.

Essi devono essere respinti, nei termini di cui alla motivazione che segue con conseguente conferma delle appellate sentenze.

Quanto alla questione (sollevata in primo grado ove era comunque rilevabile ex officio) della lamentata improponibilità dei ricorsi di primo grado, (pacificamente notificati entro il termine decadenziale del 15.09.2000, ex articolo 69, comma 7 del DLgs 30 marzo 2001, n. 165 ancorchè depositati successivamente) il Collegio - ancorchè essa non sia stata oggetto di riproposizione - ribadisce l'orientamento della giurisprudenza secondo il quale (Cons. Stato VI n. 2939/2008, IV Cons. Stato, IV, n. 1712/2006; n. 3120/2005; Cass. civ., sez. un., n. 15118/2002) entro il termine di decadenza del 15 settembre 2000 deve essere solo notificato il ricorso, e non anche depositato.

Ne discende il convincimento che pertanto i mezzi di primo grado non fossero affetti da inammissibilità/improponibilità.

Nel merito, si rammenta che la consolidata giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare - in armonia con la interpretazione prevalente che la giurisprudenza ordinaria di merito e di legittimità ha fornito del disposto di cui all'art. 2120 CC- che "la determinazione della buonuscita del personale autoferrotranviario di cui all'art. 1 r.d. n. 148 del 1931, e alla contrattazione collettiva ivi richiamata, va effettuata sulla base dei criteri inderogabili fissati dagli art. 2120 e 2121 c.c., tenendo conto di ogni elemento di natura retributiva che, avendo i caratteri dell'obbligatorietà, della continuità e della determinatezza (o determinabilità), rientri nella nozione di retribuzione normale o di fatto."(Consiglio Stato, sez. VI, 13 maggio 2005, n. 2406);

"i principi di cui agli art. 2120 e 2121, c.c., in materia di indennità di fine rapporto, lungi dall'essere espressione di inabdicabili vincoli costituzionali, sono estensibili al pubblico impiego in via sussidiaria e nei limiti in cui la materia non sia diversamente regolata da norme speciali, giusta quanto disposto dall'art. 2129, c.c." (Consiglio Stato, sez. VI, 18 maggio 2004, n. 3196).

Più in particolare, si è detto in passato che "relativamente al compenso per lavoro straordinario nonché ad altre indennità, erogate per specifiche prestazioni, senza presentare, quindi, i richiamati caratteri della fissità e continuatività, la loro computabilità nella base di calcolo della indennità di buonuscita può aversi nel solo caso in cui, in forza di atti dell'Amministrazione, risultino predeterminati, fissi, obbligatori, continuativi e forfetizzati, non essendo sufficiente la continuità della relativa percezione."(Consiglio Stato, sez. VI, 17 aprile 2009, n. 2324);

"ai sensi degli articoli 26 e 6, lett. C), c.c.n.l. 27 luglio 1976, i compensi percepiti per lavoro straordinario (e festivo, indennità di trasferta e diaria) non sono computabili in sede di liquidazione del trattamento di fine rapporto spettante al personale delle ferrovie in gestione commissariale governativa. In particolare, il compenso percepito per lavoro straordinario può rientrare nella base di calcolo in oggetto solo quando, in forza di atti dell'Amministrazione, risulti predeterminato, fisso, obbligatorio, continuativo e forfettizzato. Ciò vale anche per l'indennità di trasferta, erogata per specifiche prestazioni e che non presenta, quindi, i richiamati caratteri della fissità e della continuatività."(Consiglio Stato, sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 254).

Sotto altro profilo, ed in linea di principio, si era rilevato che

"ai fini del computo dell' indennità di anzianità non possono essere calcolati i compensi che pur avendo il carattere della fissità, continuatività ed immodificabilità, non hanno natura retributiva (nella specie trattavasi di compensi incentivanti la produttività)".(Consiglio Stato, sez. VI, 11 ottobre 2005, n. 5639).

Peraltro, ancora più di recente, il Consiglio di Stato, ha preso in esame (decisione n. 395 dell'1 febbraio 2010) proprio la specifica posizione di un dipendente dell'appellato ente ed ha pronunciato statuizione reiettiva della pretesa del lavoratore riaffermando, condivisibilmente, " l'indirizzo già in passato seguito che ha affermato, con riferimento al compenso per lavoro straordinario, che la sua computabilità nella base di calcolo può aversi nel solo caso in cui, in forza di atti dell'Amministrazione, risulti predeterminato, fisso, obbligatorio, continuativo e forfettizzato, non essendo sufficiente la continuità della relativa percezione (Cds., Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 254; C.d.S., Sez. VI. 9 ottobre 2009, n. 6204).

Analoghi rilievi vanno svolti con riferimento all'indennità di produttività, espressamente esclusa, come correttamente rileva il primo giudice.".

Non si ravvisano motivi per discostarsi dalla riportata prospettazione, il che rende superflua ogni ulteriore richiesta acquisizione istruttoria: alla stregua del compendio in atti, neppure a livello di ipotesi sussistono elementi per affermare la continuità delle prestazioni oggetto del petitum di parte appellante esulanti una semplice reiterazione delle prestazioni eccedenti l'orario normale e basate sul carattere costante e sistematico di queste ultime, da individuarsi nella duplice condizione di una verificata regolarità o frequenza o periodicità della prestazione e di una ragionata esclusione dei caratteri di occasionalità, transitorietà o saltuarietà, occorrendo misurare la riconoscibilità di regolarità, frequenza o anche mera periodicità di una prestazione eccedente l'orario ordinario con riguardo al suo ripetersi con costanza ed uniformità "per un apprezzabile periodo di tempo", così da divenire abituale nel quadro dell'organizzazione del lavoro (si veda Cassazione
civile, sez. lav., 11 marzo 2005, n. 5362, per la individuazione dei relativi indici).

Ne consegue la reiezione dei riuniti appelli e la conferma delle appellate decisioni.

In considerazione soprattutto della particolarità della controversia, le spese del giudizio devono essere integralmente compensate tra le parti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione VI, definitivamente pronunciando sui ricorsi in appello indicati in epigrafe, riunitili, li respinge e per l'effetto conferma le appellate decisioni.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
 

DL 151/2001 - Dipendenti pubblici - Assegnazione, a richiesta, anche in modo frazionato

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DL 151/2001 - Dipendenti pubblici - Assegnazione, a richiesta, anche in modo frazionato

IMPIEGO PUBBLICO
Cons. Stato Sez. VI, Sent., 14-10-2010, n. 7506
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

La sentenza appellata ha dichiarato improcedibile il ricorso introduttivo del giudizio ed ha accolto i motivi aggiunti, annullando il provvedimento di riesame del 4 settembre 2009, sulla base delle seguenti motivazioni.

"Considerato che il ricorso in epigrafe concerne l'ambito applicativo dell'art. 42 bis del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, in base al quale "il genitore con figli minori fino a tre anni di età, dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, coma 2, del decreto legislativo 30.3.2001, n. 165 e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo non complessivamente superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione, nella quale l'altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e di destinazione";

Vista e richiamata l'ordinanza in data 29.7.2009 (pubblicata i successivo 31 luglio) con la quale la I Sezione di questo Tribunale ha accolto l'istanza di sospensione interinale degli effetti derivanti dall'avversato provvedimento ai fini del riesame dello stesso;

Letto il provvedimento adottato in esito a riesame da parte della p.a. (impugnato dal ricorrente con mm.aa. di gravame) ed osservato che lo stesso preliminarmente ribadisce l'inapplicabilità dell'Istituto di cui all'art.42 bis citato agli appartenenti alla Polizia di Stato (evocando precedenti risalenti all'anno 2006 della I Sezione del Consiglio di Sato) e di seguito impernia il rinnovato diniego sull'impossibilità di sostituire il dipendente nella sede di Palmi le cui esigenze (pur se con organico ampiamente sovrabbondante rispetto alla relativa pianta) ritiene, sic et simpliciter, preminenti rispetto a quelle della ulteriore (e sotto organico) sede indicata dal dipendente;

Considerato che:

1. destinatario del beneficio in oggetto è il personale dipendente delle pubbliche amministrazioni disciplinate dal D.Lvo 165/01, il cui art.1 contiene disposizioni che disciplinano l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; per queste ultime, a tenore del II comma," s'intendono" tra l'altro, "tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie....";

2. non può non essere osservato che proprio in tema di disciplina del rapporto di lavoro, nel successivo art. 3 dello stesso decreto n. 165/01 viene affermato che "rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato......."

3. la materia dei trasferimenti, temporanei o definitivi che siano, del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni riguarda il rapporto di lavoro del medesimo, concernendo direttamente la variazione del luogo in cui la prestazione deve essere effettuata;

4. l'ampia individuazione delle pubbliche amministrazioni, contenuta nel II comma dell'art. 1 del decreto n. 161/01, va integrata, anche ai fini dell'applicazione dell'art. 42bis del decreto n. 151 del 26 marzo 2001, dal successivo art. 3, per il quale " il personale militare e le Forze di polizia di Stato", rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti;

5. nell'Ordinamento della P.S. ha fatto ingresso, nell'ambito del rapporto di lavoro degli appartenenti a tale Istituzione, prima la norma dell'art.14 del d.P.R. n. 170 del 2007 e poi la norma dell'art. 18 del d.P.R. n.51 del 2009 (decreti rispettivamente di recepimento dell'accordo sindacale per le FF. polizia ad ordinamento civile e militare e di integrazione di tale accordo): norme, entrambe di analogo tenore, che individuano una serie di disposizioni che si applicano al personale delle FF.Polizia ad ordinamento civile "oltre a quanto previsto dal d.lgs. n.151 del 2001";

6. conseguentemente, quantomeno a partire dalla data di efficacia del d.P.R. n.170 del 2007 ed in forza dell'esplicito ed inequivoco richiamo contenuto nel citato art.14, nell'Ordinamento della P.S. trovano applicazione le norme del d.lgs. n.151 del 2001 senza che possano invocarsi, a sostegno di una difforme tesi esegetica, precedenti della I Sezione del Consiglio di stato che sono antecedenti al 2007; con riveniente incondivisibilità, in parte qua, dell'interpretazione sostenuta nella prima parte del provvedimento impugnato;

Considerato che, se pur vero che, nel caso di specie, la p.a. ha negato il proprio assenso all'assegnazione del ricorrente in sede sottoorganico, è altresì vero che tale diniego, così come nel provvedimento inizialmente impugnato, continua ad essere motivato esclusivamente con la ritenuta preminenza delle esigenze facenti capo alla sede di Palmi ove, - è rimasto incontestato - prestano servizio 71 unità e cioè 39 in più di quanto previsto nella relativa dotazione organica (32 unità);

Preso atto che a fronte di tali incontestati dati di fatto non può ritenersi né adeguata ovvero sufficiente ovvero congrua ovvero plausibile la secca motivazione utilizzata dalla p.a per giustificare l'impugnato e rinnovato diniego; e che, quale logico corollario, si rivelano manifestamente fondate le doglianze, sul punto, dedotte dal ricorrente;

Considerato che nel caso di specie sussistono i presupposti richiesti dall'art.9 della legge n.205 del 2000 per la sua definizione con una decisione in forma semplificata; evenienza in ordine alla quale sono state informate le parti presenti;

Considerato, pertanto, che il ricorso introduttivo del giudizio, alla luce della rinnovata e negativa pronuncia della p.a. impugnata con mm.aa. di gravame è divenuto improcedibile; mentre, per le ragioni sopra specificate, deve ritenersi manifestamente fondato il ricorso con cui sono stati interposti mm.aa. di gravame".

Con atto di appello, notificato in data 13 gennaio 2010 e depositato in data 26 gennaio 2010, il Ministero dell'interno ha impugnato la sentenza meglio specificata in epigrafe sostenendo l'inapplicabilità alla fattispecie dell'art. 42 bis del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151.

Si è costituito in giudizio il signor A.A. per resistere all'appello.

All'udienza del 25 giugno 2010 l'appello è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

La sezione non può che confermare la propria recentissima decisione del 25 maggio 2010, n. 3728.

"Come è noto l'art. 42 bis, comma 1, del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151 (T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) - introdotto dall'art. 3, comma 105, della legge n. 350 del 24 dicembre 2003 - prevede che "il genitore con figli minori fino a tre anni di età dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l'altro genitore esercita la propria attività lavorativa....".

Al riguardo questo Consiglio ha già chiarito l'assorbente e preliminare profilo per cui destinatario del beneficio in oggetto, è in realtà il solo personale civile dipendente dalle pubbliche amministrazioni disciplinate dal d.lgs. n. 165 del 2001. (cfr. IV Sez. n. 3876 del 10 luglio 2007 e n. 7472 del 2005, decisioni riguardanti, con percorso in diritto analogo a quello qui condiviso, l'analoga posizione del personale appartenente al Corpo della Guardia di finanza).

Soltanto in generale, in effetti, l'art. 1, comma 2, del decreto da ultimo citato, qualifica come amministrazioni pubbliche "tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie....".

Sennonché non può non essere osservato che proprio in tema di disciplina del rapporto lavorativo, nel successivo art. 3 dello stesso decreto, viene chiarito che "rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall'articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287....".

Ne deriva che l'ampia individuazione delle pubbliche amministrazioni, contenuta nel secondo comma dell'articolo 1, va integrata - ai fini dell'applicazione dell'art. 42bis del decreto n. 151 del 2001 - col peculiare disposto del successivo art. 3, per il quale "il personale militare e le Forze di polizia di Stato", rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti.

D'altra parte, l'inapplicabilità del beneficio del trasferimento temporaneo si rapporta al particolare status giuridico di quel personale, le cui specifiche funzioni giustificano un regime differenziato, del quale, per questa stessa ragione, è indubbia la copertura costituzionale.

Legittimamente attuativo di tale peculiarità funzionale ed organizzativa deve ritenersi, a rafforzamento del profilo di impugnazione qui condiviso, il sistema normativo invocato in appello, quale emergente dalle disposizioni dell'art. 36 della legge 1° aprile 1981, n. 121 nonché dell'art. 56 del d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335, che confermano la specialità ed eccezionalità del regime di mobilità in senso proprio vigente per gli appartenenti alla Polizia di Stato, nonché la stessa specialità sostanziale degli artt. 9 e 10 del citato d.lgs. n. 151 del 2001, quali disposizioni di "tutela e sostegno della maternità e della paternità" applicabili alle forze di polizia.

L'art. 42bis del decreto n. 151 del 2001 non è quindi invocabile dal pubblico dipendente che appartenga alla Polizia di Stato. L'appello deve quindi essere accolto, con riforma della sentenza impugnata e rigetto integrale del ricorso originario".

Resta salva, ovviamente, la possibilità per l'appellato di richiedere il trasferimento nella sede desiderata ad altro titolo.

Le spese del giudizio possono essere compensate, ricorrendo giusti motivi correlati al tipo di interessi tutelati dalla normativa qui in rilievo.
P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunziando, accoglie l'appello e per l'effetto annulla la sentenza impugnata con conseguente rigetto del ricorso di primo grado.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
 

 
   

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