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Nesso eziologico - Rendita per malattia professionale e ruolo concausale

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Nesso eziologico - Rendita per malattia professionale e ruolo concausale

 

 

 

 

- Cassazione Sez. Lavoro, n. 22441 del 4 novembre 2010


INFORTUNI SUL LAVORO
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 04-11-2010, n. 22441

Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado con la quale era stata respinta la domanda di D.R.F. avente ad oggetto la condanna dell'INAIL alla costituzione di una rendita per malattia professionale.
L'adita Corte poneva a fondamento della decisione il rilevo che, sulla base della CTU espletata nel in secondo grado, alle malattie denunciate poteva riconoscersi unicamente un ruolo concausale con fattori connessi al lavoro espletato e "tale fatto non permetteva di riconoscere il ruolo causale unico e diretto dell'attività lavorativa, attributo necessario per il riconoscimento della figura di malattia professionale assicurata". Nè, sottolineava la predetta Corte, le conclusioni del CTU erano infirmate da contrarie affermazioni delle parti non avendo queste nulla osservato in sensi opposto.
Avverso tale sentenza l'assicurato propone ricorso in cassazione assistito da due censure.
L'Istituto intimato non svolge attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente, deducendo nullità della sentenza per vizio sulla formazione della pronuncia su questione decisiva, allega che la Corte del merito non ha tenuto conto che dopo il deposito della CTU erano state depositate note critiche controdeduttive nelle quali veniva evidenziato che non era stata indicata dal CTU la percentuale delle concause ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 79.
La censura non è accoglibile.
Invero parte ricorrente, pur lamentando il mancato esame da parte del giudice di appello delle note critiche, omette di trascrivere, nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, gli esatti termini in cui tale critiche sono state sottoposte all'esame del detto giudice, impedendo in tale modo qualsiasi sindacato di legittimità.
Con il secondo motivo l'assicurato, denunciando violazione di legge, assume, ponendo il quesito di diritto di cui all'art. 366 bis c.p.c. che la Corte del merito avrebbe dovuto, in base al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 79 procedere alla individuazione della percentuale di concausa delle patologie per la lavorazione svolta.
Il motivo è fondato.
Infatti anche nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia per sè sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (Cass. 4 giugno 2008 n. 14770, Cass. 16 giugno 2001 n. 8165, Cass. 29 maggio 2004 n. 10448 e Cass. 8 ottobre 2007 n. 21021).
Nella specie, invece, la Corte del merito, pur riconoscendo all'attività lavorativa un ruolo concausale nella determinazione delle malattie denunciate, ha escluso la natura professionale di dette malattie incorrendo in tal modo nel denunciato vizio.
La sentenza impugnata pertanto, in accoglimento del motivo in esame, va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione che si atterrà al richiamato principio di diritto.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie il secondo motivo del ricorso, rigetta il primo, cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di legittimità, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.



 

Benefici ex legge n. 104/92

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Benefici ex legge n. 104/92: la motivazione del diniego fondata sulla carente continuità dell'assistenza a causa dei turni di servizio è da ritenere contraddittoria

N. 07594/2010 begin_of_the_skype_highlighting              07594/2010      end_of_the_skype_highlighting REG.SEN.

N. 05964/2008 begin_of_the_skype_highlighting              05964/2008      end_of_the_skype_highlighting REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 5964 del 2008, proposto:
dal Ministero Interno – Dipartimento dei Vigili del Fuoco - Soccorso Pubblico e Difesa Civile, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
 

contro

#################### ####################, rappresentato e difeso dagli avvocati Roberto Colagrande e Paola Fatima Cortesi, con domicilio eletto presso Roberto Colagrande in Roma, via G. Paisiello, n. 55;
 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. ABRUZZO - L'AQUILA n. 546/2008, resa tra le parti, concernente DINIEGO DEI PERMESSI MENSILI RELATIVI ALLA L. 104/92.

 


 

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 luglio 2010 il Consigliere Claudio Contessa e uditi per le parti l’Avvocato dello Stato Gerardis e l’Avvocato Colagrande;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 


 

FATTO

Il Ministero dell’Interno riferisce che con atto notificato in data 2 maggio 2007 il sig. #################### ####################, in servizio presso il Dipartimento dei Vigili del Fuoco, ebbe a proporre ricorso avverso il provvedimento della direzione centrale per le risorse umane in data 7 marzo 2007 con cui era stata respinta la sua istanza volta a fruire di tre giorni di permesso mensile ai sensi dell’art. 33 della l. 5 febbraio 1992, n. 104, per assistere la cognata sig.ra M. C., riconosciuta portatrice di handicap grave.

Risulta agli atti che, nel rendere la propria relazione istruttoria al Ministero dell’Interno (nota in data 5 febbraio 2007), il Prefetto de L’Aquila ebbe a ritenere ostative al riconoscimento del beneficio due circostanze

- il fatto che, pur non potendosi negare l’effettivo svolgimento di un’attività assistenziale da parte del dipendente nei confronti della cognata, tale attività non assumeva carattere di esclusività, dato che il ricorrente si alternava con la propria moglie nelle conseguenti incombenze;

- il fatto che l’attività prestata dal sig. #################### non presentasse il carattere della continuità, “in ragione dei turni di servizio e della lontananza della sede di lavoro”.

Le richiamate ragioni ostative venivano fatte proprie dal Ministero dell’Interno il quale, con il provvedimento impugnato in primo grado, respingeva l’istanza per la ritenuta assenza del carattere di continuità ed esclusività nell’assistenza prestata.

Con il ricorso in primo grado il #################### lamentava che l’Amministrazione intimata avesse omesso di tenere in adeguata considerazione l’effettivo possesso, da parte sua, dei requisiti necessari per accedere al beneficio in parola, anche in considerazione del fatto che lo stesso risultava essere l’unico appartenente al nucleo familiare in grado di provvedervi in modo continuativo ed esclusivo, stante l’impossibilità a provvedervi da parte della madre (anziana e a propria volta gravemente malata) e della propria moglie (sorella della persona bisognosa di assistenza), lavoratrice e madre di una bambina di appena otto mesi di età.

Con la pronuncia oggetto del presente gravame, il Tribunale amministrativo respingeva il ricorso osservando (in via di estrema sintesi):

- che sussistessero nel caso di specie le condizioni previste dal comma 3 dell’art. 33, l. n. 104 del 1992 al fine del riconoscimento del beneficio richiesto. Sotto tale aspetto, i primi Giudici ritenevano dirimente ai fini del decidere “[la] situazione di grave disagio familiare con specifico riferimento all’impossibilità da parte della madre e della sorella della persona affetta da handicap a poter fornire assistenza a quest’ultima in considerazione del loro stato di salute già gravemente compromesso”;

- che il carattere di esclusività dell’assistenza che poteva essere prestata dal sig. #################### restava confermata dalla circostanza per cui sua moglie (la sig.ra M.C., sorella della persona meritevole di assistenza, sig.ra M.C.) non vi poteva attendere essendo madre lavoratrice da pochi mesi;

- che, altresì, risultasse agli atti il carattere di continuità dell’assistenza prestata dall’odierno appellato in favore della propria cognata;

- che, inoltre, il provvedimento impugnato risultasse illegittimo per avere l’Amministrazione fatto ricorso ad “una motivazione di stile limitata alla mera e generica indicazione dell’insussistenza dei presupposti di legge, senza indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche sottese alla propria determinazione, in modo da rendere percepibile al destinatario del provvedimento l’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione medesima”.

La pronuncia in questione veniva gravata in sede di appello dal Ministero dell’Interno il quale ne lamentava l’erroneità e ne chiedeva l’integrale riforma articolando un unico, complesso motivo di doglianza.

Si costituiva in giudizio il #################### il quale concludeva nel senso della reiezione del gravame.

Con ordinanza n. 4635/08 (resa all’esito della Camera di consiglio del 26 agosto 2008) questo Consiglio di Stato respingeva l’istanza di sospensione cautelare della pronuncia in epigrafe, osservando che “la pronuncia appellata abbia apprezzato in modo complessivamente condivisibile il carattere continuativo ed esclusivo dell’attività assistenziale prestata dal sig. #################### nei confronti della cognata”.

All’udienza pubblica del giorno 13 luglio 2010 i procuratori delle parti costituite rassegnavano le proprie conclusioni e il ricorso veniva trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. Giunge alla decisione il ricorso in appello proposto dal Ministero dell’Interno avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo con cui è stato accolto il ricorso proposto da un dipendente del Corpo Nazionale dei Vigili del fuoco avverso il provvedimento con cui era stato negato il diritto a fruire del permesso di cui all’art. 33 della l. 5 febbraio 1992, n. 104 al fine di prestare assistenza alla cognata affetta da una grave forma di handicap.

2. Con l’unico motivo di ricorso l’Avvocatura erariale lamenta che la pronuncia in epigrafe sia meritevole di riforma per non aver considerato che correttamente gli organi ministeriali avessero nel caso di specie ravvisato l’insussistenza dei presupposti per riconoscere i beneficî ex lege n.104 del 1992 (con particolare riguardo ai requisiti di continuità ed esclusività dell’attività assistenziale prestata in favore della cognata).

Al riguardo, il Ministero appellante lamenta che la determinazione ostativa risultasse correttamente fondata sulle risultanze istruttorie, da cui era emerso: a) che l’odierno appellato non prestasse attività assistenziale in modo esclusivo, alternandosi in tali attività con la propria moglie e b) che egli non prestasse le medesime attività in modo continuativo, “in ragione dei turni di servizio e della lontananza della sede di lavoro”.

Al riguardo l’appellante osserva che, se per un verso è vero che le modifiche apportate dalla l. 8 marzo 2000, n. 53 alle disposizioni di cui all’art. 33 della legge-quadro, n. 104 del 1992 hanno eliminato il requisito della necessaria convivenza con il disabile al fine di accedere ai beneficî ivi contemplati; nondimeno la medesima novella normativa avrebbe rafforzato la necessità dell’accertamento, ai medesimi fini, del presupposto della esclusività dell’assistenza come elemento necessario per riconoscere i più volte richiamati beneficî.

Pertanto, in presenza di una pluralità di soggetti in grado di assolvere ai compiti di assistenza, non sussisterebbe titolo alcuno per riconoscere i tre giorni di permesso mensile di cui all’art. 33, cit.

Con un secondo argomento, il Ministero appellante lamenta che erroneamente il primo giudice abbia ritenuto il carattere sostanzialmente immotivato del provvedimento impugnato in primo grado.

Al contrario, dal provvedimento in data 7 marzo 2007 sarebbero stati agevolmente evincibili i presupposti in fatto ed in dritto sottesi alla determinazione reiettiva, anche grazie al rinvio al contenuto degli atti dell’istruttoria svolta, da cui sarebbe emersa l’effettiva insussistenza dei presupposti per accordare i richiesti benefîcî.

2.1. I motivi dinanzi sinteticamente richiamati, che possono essere esaminati in modo congiunto, non possono trovare accoglimento.

2.2. Dal punto di vista dell’inquadramento giuridico della fattispecie, le tesi sostenute in sede di appello sono condivisibili per la parte in cui affermano che, all’indomani della novella normativa recata dagli articoli 19 e 20 della l. n. 53 del 2000 (la quale, ai fini che qui rilevano ha modificato in più punti la disciplina di cui all’art. 33, l. 104, cit.), è venuta meno la necessità del requisito della convivenza al fine di accedere al beneficio di cui al comma 5 dell’art. 33, l. cit. (ci si riferisce alla possibilità di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio), ma – al contempo – è stata rafforzata l’esigenza di verificare l’effettività dell’assistenza prestata al fine di riconoscere la spettanza dei beneficî contemplati dal medesimo art. 33.

Dal punto di vista positivo, l’orientamento di politica legislativa in parola è stato trasfuso nella previsione di cui all’art. 20 della l. 53, cit., il quale (ai fini che qui rilevano) stabilisce che “le disposizioni dell’articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (…) si applicano anche (…) ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché non convivente”.

Pertanto, il fulcro del thema decidendum non consiste tanto nel determinare se, ai fini del riconoscimento del richiesto beneficio, fossero necessari i requisiti della continuità e dell’esclusività dell’assistenza; quanto – piuttosto – nello stabilire se i requisiti in parola potessero dirsi sussistenti nel caso sottoposto all’Amministrazione dell’Interno.

Ad avviso del Collegio, al quesito deve essere fornita risposta positiva, se solo si consideri che:

- per ciò che attiene il requisito della continuità, una lettura in senso sistematico delle pertinenti disposizioni induce a ritenere che tale requisito non postuli una costante ed ininterrotta attività assistenziale (secondo un’opzione interpretativa che, a ben vedere, risulterebbe incompatibile con la previsione secondo cui tale requisito può sussistere anche in caso di persone non conviventi e comunque ordinariamente dedite ad attività lavorative per buona parte della giornata), dovendo piuttosto ritenersi che tale requisito sussista tutte le volte in cui l’attività assistenziale sia comunque prestata con modalità costanti, ripetute nel tempo e, nel loro complesso, sufficienti a garantire le esigenze di tutela della persona portatrice di handicap;

Sotto tale aspetto, quindi, il provvedimento impugnato in prime cure risulta effettivamente viziato dei lamentati profili di incongruità atteso che l’Amministrazione, pur avendo ammesso l’effettività dell’opera prestata dall’odierno appellato con costanza nel corso del tempo in favore della propria cognata, ha comunque ritenuto che tale attività non presentasse il carattere della continuità solo “in ragione dei turni di servizio e della lontananza dalla sede di lavoro”. Tuttavia, la motivazione in parola risulta intrinsecamente contraddittoria in quanto non è dato comprendere per quale ragione un’attività comunque prestata con carattere di uniformità e costanza nel corso del tempo venga ritenuta incompatibile con il requisito della continuità per il solo fatto che vi ostino proprio quei parziali impedimenti lavorativi che il sistema normativo delineato dalla l. n. 104 del 1992 mira ad attenuare nel comune interesse del portatore di handicap e del lavoratore;

- per ciò che attiene il requisito dell’esclusività, poi, se per un verso è vero che l’attività in parola poteva essere (almeno potenzialmente) svolta dall’odierno appellato insieme con la propria moglie, è pur vero che l’Amministrazione appellante non sembra aver tenuto in adeguata considerazione le circostanze concrete (che, pure, erano state ritualmente allegate agli atti) le quali impedivano - tunc et illic - una collaborazione effettiva nel prestare la medesima attività. In particolare, l’Amministrazione non sembra aver adeguatamente valutato il fatto che la moglie del sig. #################### fosse in concreto gravemente ostacolata nel prestare la propria opera assistenziale in favore della sorella nel particolare momento storico in cui l’istanza era stata presentata, trovandosi nella delicata e comprensibile situazione di lavoratrice madre di una figlia in tenerissima età (otto mesi) e pertanto, comprensibilmente impossibilitata – ovvero fortemente ostacolata – nel prestare un’assistenza effettiva e continuativa in favore della propria sorella.

3. Per le ragioni sin qui esposte il ricorso in epigrafe deve essere respinto.

Il Collegio ritiene che sussistano giusti motivi onde disporre l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti.

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 luglio 2010 con l'intervento dei Signori:

 

 

Giuseppe Severini, Presidente

Domenico Cafini, Consigliere

Bruno Rosario Polito, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere, Estensore

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

Il Segretario


 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 20/10/2010

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione



 

La retribuzione imponibile ai fini previdenziali

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La retribuzione imponibile ai fini previdenziali comprende tutto ciò che in denaro, in natura o in erogazioni liberali venga corrisposto dal datore al lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro
PREVIDENZA SOCIALE
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-11-2010, n. 22739
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Firenze, confermando la statuizione di primo grado, rigettava, nel contraddittorio con l'Inps, la domanda proposta da S.V. nei confronti della Banca Monte dei Paschi di Siena spa, di cui era stato dipendente, per ottenerne la condanna al versamento della contribuzione, concernente il periodo dal 1.10.93 all'1.8.99, sulla differenza tra il canone di locazione della abitazione, che il medesimo datore erogava al proprietario dell'immobile (L. due milioni mensili), ed il canone di sublocazione da esso dipendente pagato alla Banca (inizialmente L. 459.794 ed alla fine 542.542 mensili). La Corte territoriale - accolta preliminarmente la eccezione di prescrizione quinquennale della contribuzione, giacchè la domanda del lavoratore, essendo stata proposta il 7.3 ed il 24.9.2001, e quindi oltre il quinquennio dal 1.1.96, non era idonea la mantenimento del previgente termine decennale, ai sensi della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9 - riteneva
non prescritto solo il periodo dal 7.3.96 all'1.8.99, in cui però, affermava, la contribuzione non era accoglibile, perchè si era al di fuori della disposizione sull'imponibile contributivo di cui alla L. n. 153 del 1969, art. 12, nè sussisteva un obbligo della Banca avente origine dalla contrattazione collettiva, per cui la differenza di canone pagata in più dal datore si traduceva in un onere dal medesimo volontariamente assunto, per il reperimento di un alloggio a favore del dipendente.

Avverso detta sentenza il S. ricorre con due motivi. Resiste la Banca con controricorso, mentre l'Inps ha depositato procura.

Entrambe le parti private hanno depositato memoria.
Motivi della decisione

Con il primo motivo si denunzia violazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9 e difetto di motivazione, per avere la sentenza impugnata introdotto un termine di decadenza quinquennale per la denuncia del lavoratore, che non è previsto dalla legge, mentre sussisterebbe il termine di prescrizione quinquennale sottoposto alla condizione risolutiva qualora sia presentata la denuncia del lavoratore entro i dieci anni. Aderendo all'opposto indirizzo il lavoratore che presenti la denuncia di omissione contributiva non potrebbe mai risalire ai 10 anni precedenti e dovrebbe presentare successive denuncie ogni cinque anni.

Il motivo non merita accoglimento.

1. E' stato infatti già affermato (Cass. n. 4153 del 24/02/2006, e da ultimo Cass. n. 73 del 7/1/2009) che "In materia di prescrizione del diritto degli enti previdenziali ai contributi dovuti dai lavoratori e dai datori di lavoro, ed in relazione all'intervenuta riduzione del termine di prescrizione da decennale a quinquennale, in virtù del disposto della L. n. 335 del 1995, in relazione ai contributi per i quali il quinquennio dalla scadenza si era integralmente maturato prima dell'entrata in vigore della legge, la denuncia del lavoratore è idonea a mantenere il precedente termine decennale solo quando sia intervenuta prima, ovvero intervenga comunque entro il 31 dicembre 1995, analogamente a quanto previsto per gli atti interruttivi dell'ente previdenziale. Quanto agli altri contributi, parimenti dovuti per periodi anteriori alla entrata in vigore della legge, ma per i quali, a quest'ultima data, il quinquennio dalla scadenza non si era integralmente maturato, il termine
decennale può operare solo mediante una denuncia intervenuta nel corso del quinquennio dalla data della loro scadenza".

Si è affermato, in dette pronunzie, che la denuncia del lavoratore non si configura come atto interruttivo, non solo perchè non proviene dal creditore, ma anche perchè il suo effetto non è quello di fare iniziare un nuovo periodo di prescrizione ex art. 2944 cod. civ., ma di raddoppiare fin dall'inizio il termine da cinque a dieci anni.

Si tratta sicuramente di una disposizione peculiare, giacchè la durata del termine prescrizionale viene ad essere determinata dal comportamento di un soggetto terzo rispetto al rapporto contributivo, che intercorre unicamente tra datore di lavoro ed ente previdenziale.

Vi è infatti da considerare che, per variare il termine prescrizionale (dieci o cinque anni), è sufficiente la denuncia del lavoratore all'Istituto previdenziale, di cui il datore può rimanere all'oscuro, dal momento che la legge non prescrive onere di informativa nei suoi confronti a carico del lavoratore denunciarne (in tal senso Cass. n. 1372 del 29 gennaio 2003 citata in ricorso).

1.1. Il legislatore non prescrive il termine entro il quale la denunzia debba essere inoltrata dal lavoratore interessato, al fine di determinare l'applicazione del termine decennale, tuttavia il complesso meccanismo prefigurato dalla legge conduce a ritenere che questa deve necessariamente intervenire entro il quinquennio dalla data della loro scadenza. Infatti il prolungamento del termine ha la possibilità di operare solo laddove il diritto non sia già venuto meno; in altri termini, affinchè il termine medesimo possa essere raddoppiato, occorre pur sempre che il credito contributivo esista ancora e non si sia già estinto per il maturare del quinquennio dalla sua scadenza, come fatalmente accadrebbe nel caso in cui, durante detto lasso di tempo non intervenisse la denunzia: in tal caso il diverso termine decennale non avrebbe più la materia cui applicarsi. Nulla infatti impedisce che alla scadenza del quinquennio operi l'ormai ordinario termine quinquennale, rispetto al quale
quello decennale costituisce deroga, dal momento che il legislatore usa l'espressione "salvi i casi di denuncia del lavoratore...". 1.2. La applicazione di questo principio - che è di piana applicazione per i contributi scaduti "dopo" l'entrata in vigore della legge, perchè il lavoratore è ormai avvertito che, in caso di mancata denunzia, il termine prescrizionale è quinquennale - può destare delle perplessità in relazione ai contributi scaduti "prima" dell'entrata in vigore della legge, perchè in tal caso l'abbreviazione del termine opera retroattivamente. Ad esempio i contributi dovuti per l'anno 1989 si sarebbero automaticamente prescritti nell'anno 1994, e quindi ancor prima della entrata in vigore della legge. In tal caso solo una denuncia inoltrata prima dell'entrata in vigore della legge, o anche nel periodo dal 17 agosto al dicembre 1995 sarebbe idonea a mantenere l'originario termine decennale. Detta interpretazione appare invero l'unica compatibile con il complesso
sistema configurato dalla legge, la quale non assicura alcuna possibilità di "salvezza" per il passato, giacchè equipara la sorte della contribuzione dovuta prima dell'entrata in vigore della legge (comma 9) a quella dovuta dopo (comma 10).

1.3. Non appare quindi condivisibile la sentenza di questa Corte n. 18540 del 2004, la quale, per ovviare a questo effetto, ha enunciato il principio per cui denuncia del lavoratore, affinchè valga il termine decennale, deve intervenire entro il quinquennio successivo, non già alla data in cui i contributi scadevano, ma al primo gennaio 1996, perchè per detto periodo - gennaio 1996, gennaio 2001 - opererebbe "una sospensione condizionata" del decorso della prescrizione. Ma questa "sospensione condizionata" non sembra però ricavabile dalla legge. Non è infatti ipotizzabile che il legislatore abbia concesso al lavoratore uno spatium deliberandi per effettuare la denuncia, con conseguente sospensione del decorso della prescrizione, per tutto il quinquennio che va dal primo gennaio 1996 al primo gennaio 2001. Così opinando, infatti, non solo si finirebbe per disattendere l'intendimento chiaramente espresso dal legislatore, che era quello non già di allungare i termini di
prescrizione, ma di abbreviarli, ma soprattutto, restando incerta la sorte di alcuni contributi, in detto quinquennio 1996/2001 si creerebbe uno stato di paralisi: il contenzioso giudiziale sulla debenza dei contributi non avrebbe possibilità di decisione e si produrrebbe l'effetto paradossale per cui, nonostante la nuova legge, lo scadere del quinquennio dal momento in cui i contributi erano dovuti, sarebbe del tutto privo di rilevanza, non potendo mai escludersi il sopravvenire della denunzia in data successiva.

1.4. D'altra parte, quando il legislatore ha inteso sospendere il corso della prescrizione dei contributi, lo ha indicato espressamente, com'è avvenuto con la disposizione di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 38, comma 7, per cui nell'ipotesi di periodi lavorativi non coperti da contribuzione relativi all'anno 1998, risultanti dall'estratto conto contributivo, (il che non è nella specie, onde questa disposizione di sospensione non è applicabile) il termine di prescrizione di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, lett. a), secondo periodo, ossia il termine per la denuncia, è sospeso per un periodo di diciotto mesi a decorrere dal primo gennaio 2003.

Ed allora occorre concludere che per i contributi per i quali il quinquennio dalla scadenza si era integralmente maturato prima dell'entrata in vigore della legge, la denuncia del lavoratore è idonea a mantenere il precedente termine decennale solo quando sia intervenuta prima, ovvero intervenga entro il 31 dicembre 1995, in parallelo con quanto previsto con gli atti interruttivi dell'ente previdenziale. Quanto agli altri contributi, parimenti dovuti per periodi anteriori alla entrata in vigore della legge, ma per i quali, a quest'ultima data, il quinquennio dalla scadenza non si era integralmente maturato il termine decennale può operare solo mediante una denuncia intervenuta nel corso del quinquennio dalla data della loro scadenza.

1.5. Nè si può sostenere, come si osserva in ricorso, che il lavoratore, con la denuncia, non potrebbe mai risalire ai dieci anni precedenti la denunzia, perchè ciò invece è possibile, come sopra rilevato, ove questa intervenga quando il quinquennio non si è ancora maturato. Inoltre, in tal caso, il termine resta decennale e quindi non è necessario presentare la denunzia ogni cinque anni.

Il primo motivo di ricorso va quindi rigettato, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione del termine quinquennale di prescrizione, salvaguardando tutta la contribuzione relativa al quinquennio anteriore alla denuncia (7.3.1996/1.8.99).

2. Con il secondo motivo si denunzia violazione della L. n. 153 del 1969, art. 12 e difetto di motivazione, perchè la sentenza non si sarebbe attenuta alla giurisprudenza in materia di sottoposizione a contribuzione della differenza canoni e non avrebbe spiegato perchè, pur riguardando un rapporto di lavoro, il vantaggio economico attribuito mediante contratto di sublocazione a canone inferiore rispetto a quello pagato dalla Banca, dovrebbe essere considerato estraneo al rapporto di lavoro. La differenza tra i due canoni non potrebbe quindi essere esclusa dalla base imponibile, stante la tassatività delle voci esonerate.

II motivo è fondato.

La retribuzione imponibile ai fini previdenziali, prevista dalla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12, nel testo vigente all'epoca dei fatti per cui è causa e fino al 31 dicembre 1997, comprende tutto ciò che in danaro o in natura venga dal datore di lavoro corrisposto in favore del lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro, con la sola esclusione delle somme erogate per uno dei titoli tassativamente elencati nel capoverso della norma medesima.

Sulla tassatività dei titoli previsti dal secondo comma dell'articolo 12 la giurisprudenza di questa Corte è concorde (cfr.

Cass., S.U., 3 giugno 1985 n. 1292; Sez. Lavoro, 19 febbraio 1987 n. 1813; 2 giugno 1988 n. 3749; 6 settembre 1991 n. 9396; 26 marzo 1994 n. 2968; 1 agosto 1996 n. 6923; 27 luglio 1999 n. 8140). Non è pertanto consentito al giudice ricorrere alla interpretazione analogica per escludere dalla retribuzione imponibile, sulla base di una eadem ratio, erogazioni diverse da quelle espressamente elencate nel capo verso dell'art. 12. Solo il legislatore, con successive disposizioni, può estendere la esenzione contributiva ad istituti diversi da quelli previsti dalla norma citata.

2.1. Nella specie la differenza tra il canone di locazione pagato dalla Banca al proprietario dell'immobile ed il canone di sublocazione pagato alla Banca dal dipendente, si configura sicuramente come erogazione in natura da parte della Banca medesima al proprio dipendente. Si tratta infatti di un indubbio vantaggio per il lavoratore, consistente nel godimento di una dimora di valore superiore rispetto a quello corrispondente al canone pagato, la cui giustificazione non può che essere trovata nel rapporto di lavoro, non comprendendosi per quale altro titolo potrebbe essere dovuta. Si tratta quindi di qualcosa che il lavoratore riceve in dipendenza del rapporto di lavoro, che, ai sensi del citato art. 12, va integralmente sottoposto a contribuzione.

2.2. Detto regime contributivo cambia nel vigore della nuova disposizione che va applicata dal primo gennaio 1998, che abrogando la L. n. 153 del 1969, citato art. 12, detta le nuove regole in materia. Si tratta del D.Lgs. n. 314 del 1997, art. 6 il quale dispone che i contributi si versano sui redditi da lavoro dipendente (escludendone alcune voci che non interessano in questa sede). A sua volta l'art. 3, medesimo D.Lgs. (che ha modificato il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 48), dispone che fanno parte del reddito da lavoro dipendente "tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali in relazione al rapporto di lavoro". Il citato art. 3, al comma 4, lett. c) indica poi espressamente il regime contributivo da applicare in caso di fabbricati concessi in locazione dal datore di lavoro. La disposizione è tesa proprio ad evitare che la retribuzione in natura costituita dalla messa a disposizione
dell'abitazione, sfugga integralmente all'onere contributivo, qualora il dipendente paghi un canone inferiore al suo valore e prevede che l'ammontare su cui pagare i contributi è pari alla "differenza tra la rendita catastale aumentata di tutte le spese inerenti al fabbricato stesso, comprese le utenze non a carico dell'utilizzatore e quanto corrisposto per il godimento del fabbricato stesso". 2.3. Ne consegue che la differenza canone per cui è causa deve essere integralmente sottoposta a contribuzione per il periodo dal 7.3.1996 al 31.12.1997, in cui vigeva la L. n. 153 del 1969, art. 12, mentre per il periodo successivo i contributi andranno pagati sulla differenza tra la rendita catastale come sopra definita ed il canone corrisposto dal S.. Competerà al Giudice del rinvio, che si designa nella Corte d'appello di Bologna di effettuare i necessari conteggi, restando poi irrilevante il fatto, che, come sottolineato dalla Banca, il canone pagato si possa rivelare superiore alla
rendita catastale e che quindi non vi siano differenze contributive da versare.

Conclusivamente il primo motivo di ricorso va rigettato, mentre va accolto il secondo; la sentenza va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Bologna che si atterrà al principio di diritto enunciato nel paragrafo precedente.
P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Bologna.
 

 

Dipendenti pubblici: la rilevanza della residenza anagrafica e di quella di fatto

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Dipendenti pubblici: la rilevanza della residenza anagrafica e di quella di fatto

 

 

 


N. 07730/2010 REG.SEN.

N. 07516/2009 REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

sul ricorso numero di registro generale 7516 del 2009, proposto dalla dott.ssa ############### ###############, rappresentata e difesa dall'avvocato Luigi Medugno, con domicilio eletto presso il studio in Roma, via Panama, 58;


contro

Il Ministero della Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;


nei confronti di

Il dott. Paolo Emilio De Simone, rappresentato e difeso dall'avv. Marino Bisconti, con domicilio eletto presso la signora Donatella Plutino in Roma, via delle Milizie 34;


per la riforma

della sentenza n. 05170/2009, resa tra le parti, depositata in data 19 maggio 2009 con la quale il TAR Lazio, sezione prima, ha respinto il ricorso proposto contro il decreto ministeriale con il quale il dott. Paolo Emilio De Simone è stato trasferito presso il Tribunale di Roma con funzioni di magistrato di Tribunale.




Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia, del Consiglio Superiore della Magistratura e del dott. Paolo Emilio De Simone;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 ottobre 2010 il Cons. Sergio De Felice e uditi per le parti l’avvocato Lauteri, su delega dell’avv. Medugno, e l'avv. dello Stato Grumetto;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.




FATTO

Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, l’attuale appellante, dottoressa ###############, impugnava il decreto ministeriale con cui il dott. De Simone era stato trasferito presso il Tribunale di Roma con funzioni di magistrato di Tribunale.

La ricorrente rappresentava che con delibera del 29 settembre 2005 il C.S.M. aveva individuato le sedi da assegnare, con precedenza rispetto a tutti gli altri aspiranti, ai magistrati che avevano superato un quinquennio di servizio presso le sedi disagiate; inoltre, la ricorrente faceva presente che, avendo maturato il previsto quinquennio e non avendo ancora fruito del diritto di prelazione, aveva presentato domanda ai sensi dell’art. 5, comma 2, L.133 del 2008, per il posto di giudice del tribunale di Roma.

L’Assemblea Plenaria del CSM, nella seduta del 10 novembre 2005, deliberava il trasferimento del dott. De Simone presso il tribunale di Roma con funzioni di giudice, e con distinto provvedimento, destinava la dottoressa ############### all’Ufficio di sorveglianza di Roma con funzioni di magistrato di sorveglianza.

Da tali provvedimenti la dottoressa ###############, attuale appellante, si riteneva lesa e quindi ricorreva in giudizio.

Con il ricorso in primo grado, venivano dedotti i vizi di violazione e falsa applicazione del par. X della circolare CSM n.15098 del 30.11.2003, nonché eccesso di potere sotto vari profili.

In sostanza, la ricorrente deduceva che, per fruire del punteggio aggiuntivo triplicato, quale quello attribuito al dott. De Simone, era necessario il concorso di due requisiti e cioè : 1) il coniuge del magistrato deve svolgere stabile attività lavorativa pubblica o privata; 2) l’attività lavorativa deve imporre la sua presenza nella sede di residenza o in località viciniore.

Nella specie, invece, era stato rilevato che la moglie del dott. De Simone risultava sì essere dipendente a tempo indeterminato della Camera di Commercio I.A.A. di Roma dal mese di gennaio 1998, ma la medesima aveva residenza anagrafica in Avellino.

In sostanza, la Commissione avrebbe erroneamente proposto al Plenum la attribuzione del punteggio aggiuntivo, nonostante la prassi interpretativa consolidata in senso opposto, e cioè nel senso che - nei casi in cui la attività lavorativa si svolga in località diversa da quella di residenza - il punteggio aggiuntivo non potrebbe essere assegnato.

Il giudice di prime cure, dopo avere rigettato le eccezioni di rito, rigettava il ricorso, ritenendo che la ratio dell’invocato paragrafo X della circolare del CSM – che prevede che per ‘salvaguardia della unità familiare’ debba intendersi la necessità di consentire la convivenza del nucleo familiare nella sede richiesta, con esclusivo riguardo alla attività lavorativa svolta dal coniuge del magistrato e che indica che il punteggio aggiuntivo debba essere riconosciuto solo qualora il coniuge svolga stabile attività lavorativa pubblica o privata che impone la sua presenza nella sede di residenza o in località viciniore – poteva portare a ritenere ragionevole che il concetto di residenza utilizzato fosse riferibile anche alla situazione di fatto, vale a dire alla situazione di abituale dimora che si realizza per lo svolgimento di una stabile e continuativa attività lavorativa, e non necessariamente alla residenza anagrafica.

Secondo la sentenza di rigetto, inoltre, non poteva avere rilievo la circostanza che, in data 13 marzo 2007, al fine di chiarire le oscillazioni e dubbi sul punto, una successiva circolare del C.S.M. abbia inteso che per ‘residenza’ del coniuge e dei figli, ai fini della attribuzione del punteggio aggiuntivo, debba intendersi soltanto quella anagrafica.

Avverso la sopra indicata sentenza propone appello la dott.ssa ###############, affidandosi ai seguenti motivi di impugnazione.

Dopo avere esposto che nella seduta del 27 ottobre 2005 la Commissione formulava due proposte alternative – la prima relatore il dott. Primicerio, che riteneva fondata l’istanza del dott. De Simone e la seconda, relatore la dott.ssa Civinini, che riteneva fondata quella della dott.ssa ############### - e che il Plenum, nella seduta del 10 novembre 2005, recepiva ‘acriticamente’ la prima delle due proposte, senza dare alcun conto delle ragioni della scelta, l’appellante espone i motivi in diritto.

In sostanza, con l’appello si lamenta la violazione del paragrafo X della circolare su menzionata, in quanto il punteggio aggiuntivo potrebbe essere attribuito solo se il coniuge svolga stabile attività lavorativa (primo requisito) pubblica o privata, che imponga la sua presenza nella sede di residenza o in località viciniore (secondo requisito).

Nel caso di specie difetterebbe il secondo requisito, in quanto la moglie del dott. De Simone risulterebbe essere dipendente a tempo indeterminato della Camera di Commercio IAA di Roma dal mese di gennaio 1998, ma con residenza anagrafica in Avellino.

Sarebbe quindi errato il ragionamento del primo giudice, laddove ha affermato che per ‘residenza’ si debba intendere la abituale dimora (nozione del codice civile) che si realizza per lo svolgimento di una stabile e continuativa attività lavorativa, e non invece la residenza anagrafica, come avrebbe chiarito la successiva circolare. Tale interpretazione infatti sarebbe confermata dalla successiva deliberazione dell’organo di autogoverno, datata 13 marzo 2007.

Si sono costituite le amministrazioni statali appellate – Ministero di Grazia e Giustizia e CSM – chiedendo il rigetto dell’appello perché infondato.

Si è costituito anche in questa fase del giudizio l’originario, chiedendo il rigetto dell’appello perché infondato.

Alla udienza del 19 ottobre 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. L’appello è infondato.

Nella fattispecie, in mancanza di una normativa espressa sulla questione controversa, risultano applicabili le circolari in materia emanate dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Secondo tali previsioni (circolare del 2003 al paragrafo X), il punteggio aggiuntivo ai magistrati da trasferire può essere attribuito solo se il coniuge svolge stabile attività lavorativa (primo requisito) pubblica o privata, che impone la sua presenza nella sede di residenza o in località viciniore (secondo requisito).

La prima circolare non si premura di stabilire se per “residenza” debba intendersi soltanto quella anagrafica oppure più generalmente anche quella di fatto (purché risultante in maniera incontrovertibile).

Nel caso di specie, secondo la prospettazione di parte appellante, difetterebbe il secondo requisito, in quanto la moglie del magistrato contro interessato in primo grado - pur risultando dipendente a tempo indeterminato della Camera di Commercio IAA di Roma dal mese di gennaio 1998 - ha l’effettiva residenza anagrafica in Avellino.

2. Ritiene la Sezione che le articolate censure dell’appellante siano infondate e vadano respinte.

La ragione della circolare applicata nel corso del procedimento, come ha osservato il primo giudice, è la tutela della salvaguardia della unità familiare e cioè la necessità di consentire la convivenza del nucleo familiare nella sede richiesta, con esclusivo riguardo alla attività lavorativa svolta dal coniuge del magistrato.

Pertanto è previsto che il punteggio aggiuntivo debba essere riconosciuto solo qualora il coniuge svolga stabile attività lavorativa pubblica o privata che impone la sua presenza nella sede di residenza o in località viciniore.

In generale, sulla nozione di residenza effettiva o anagrafica, si ritiene che la residenza di una persona sia determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo (articolo 43, secondo comma, codice civile), ossia dall'elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali.

Pertanto, anche in tema di rispetto dell’obbligo di residenza del dipendente, si è correttamente ritenuto che, qualora la residenza anagrafica non corrisponda alla residenza di fatto, è di questa che bisogna tener conto con riferimento alla residenza effettiva, quale si desume dall'art. 43 c.c., e la prova della sua sussistenza può esser fornita con ogni mezzo, anche indipendentemente dalle risultanze anagrafiche, atteso che queste hanno valore presuntivo, essendo la residenza della persona determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un dato luogo (in tal senso, per esempio, T.A.R. Liguria Genova, sez. II, 7 giugno 2007 , n. 1051).

Salvo che ad alcuni fini disponga altrimenti la legge (ovvero l’amministrazione, quando risulti il suo potere di fissare criteri da applicare nei successivi procedimenti, come nella specie), la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, ossia dall'elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali.

Pertanto, qualora la residenza anagrafica non corrisponda alla residenza di fatto, è di questa che – per la verifica del rispetto degli obblighi dei dipendenti e l’accertamento delle relative situazioni di famiglia - bisogna tener conto, come si desume dall'art. 43 c.c.

La prova della sua sussistenza può esser fornita con ogni mezzo, anche indipendentemente dalle risultanze anagrafiche o in contrasto con esse, atteso che le risultanze anagrafiche hanno valore presuntivo, essendo la residenza della persona determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un dato luogo.

La giurisprudenza ha chiarito, ma in realtà a fini di validità della notifica, che sussiste una presunzione - salva prova contraria - di corrispondenza della residenza anagrafica con il luogo di dimora effettiva del destinatario (Cassazione civile , sez. I, 19 novembre 2007 , n. 23838).

E’ vero anche che il principio della corrispondenza tra residenza anagrafica e residenza effettiva costituisce una presunzione semplice, superabile con ogni mezzo di prova idoneo ad evidenziare l’abituale e volontaria dimora di un soggetto in un luogo diverso.

Pertanto, oltre le definizioni codicistiche di residenza, domicilio e dimora, non vi è dubbio che la nozione di residenza effettiva, in contrapposizione a quella soltanto anagrafica, sia un dato assodato, sicché non può essere escluso che la precedente circolare ricomprendesse il riferimento alla residenza effettiva. Si veda per esempio, oltre l’art. 44 c.c., anche l’articolo 31 disp. attuazione al codice civile, ai sensi del quale, ai fini della opponibilità del trasferimento di residenza ai terzi di buona fede nei modi prescritti dalla legge, deve aversi la doppia dichiarazione fatta al comune che si abbandona e a quello dove si intende fissare la dimora abituale: si evince che in mancanza delle previste formalità, la persona fisica può avere contemporaneamente due residenze, una effettiva e una anagrafica, ma ai fini della opponibilità ai terzi di buona fede sono richieste specifiche formalità.

3. Nella specie, soltanto successivamente la circolare in materia dell’anno 2007 ha operato il restringimento del beneficio alla sola fattispecie dell’impegno di lavoro del coniuge che esiga la permanenza (solo) nel luogo della residenza anagrafica, mentre per le vicende del passato, sotto la cui disciplina ricade la fattispecie in esame, tale distinzione e limitazione non sussisteva.

Il requisito della residenza, piuttosto che a fini di opponibilità o conoscibilità da parte dei terzi, rilevava quale (secondo) presupposto, ai fini del riconoscimento del beneficio del punteggio aggiuntivo, ai fini del trasferimento del magistrato coniuge.

Come detto, soltanto in un periodo ben successivo al verificarsi della specie in esame, la circolare disciplinante la materia, mentre nella precedente si riferiva alla “residenza” senza ulteriori specificazioni, ha ritenuto di operare la distinzione tra la residenza anagrafica e quella eventualmente di fatto, al fine di chiarire che la rilevanza – ai fini del punteggio aggiuntivo ai magistrati da trasferire, che può essere attribuito solo se il (del magistrato) coniuge svolge stabile attività lavorativa (primo requisito) pubblica o privata che impone la sua presenza nella sede di residenza o in località viciniore (secondo requisito) – alla residenza poteva essere solo a quella anagrafica.

Al di là dei limiti della sua portata precettiva, tale sopravvenuta interpretazione non poteva che valere per l’avvenire, non contribuendo certo a disciplinare le fattispecie già esaurite insede amministrativa, in modo diverso dal senso comune e dalla consueta interpretazione della giurisprudenza.

Come hanno dedotto le Amministrazioni appellate, i richiami operati dalla appellante ai casi successivi sono appunto di corretta applicazione delle nuove previsioni, ma rimarcano e confermano che solo per il periodo successivo alla modifica della circolare, avvenuta con la delibera del 13 marzo 2007, la attribuzione del punteggio è stata ancorata per la prima volta al dato anagrafico.

4. Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

La condanna alle spese e degli onorari del presente grado di giudizio segue le regole della soccombenza. Di essi è fatta liquidazione in dispositivo.

P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, rigetta l’appello n. 7516 del 2009, confermando la impugnata sentenza. Condanna parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidandole in complessivi euro quattromila, di cui duemila a favore delle appellate amministrazioni statali e duemila a favore del controinteressato, oltre accessori di legge.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 ottobre 2010 con l'intervento dei magistrati:



Luigi Maruotti, Presidente

Pier Luigi Lodi, Consigliere

Anna Leoni, Consigliere

Salvatore Cacace, Consigliere

Sergio De Felice, Consigliere, Estensore





   
   
L'ESTENSORE  IL PRESIDENTE
   
   
   
   
   

Il Segretario



DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 02/11/2010

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione



 

Malattie professionali: il giudice deve individuare la percentuale di concausa delle patologie per i

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Malattie professionali: il giudice deve individuare la percentuale di concausa delle patologie per il lavoro svolto
Va escluso il nesso eziologico solo se viene individuato con certezza l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni

INFORTUNI SUL LAVORO
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 04-11-2010, n. 22441
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado con la quale era stata respinta la domanda di D.R.F. avente ad oggetto la condanna dell'INAIL alla costituzione di una rendita per malattia professionale.

L'adita Corte poneva a fondamento della decisione il rilevo che, sulla base della CTU espletata nel in secondo grado, alle malattie denunciate poteva riconoscersi unicamente un ruolo concausale con fattori connessi al lavoro espletato e "tale fatto non permetteva di riconoscere il ruolo causale unico e diretto dell'attività lavorativa, attributo necessario per il riconoscimento della figura di malattia professionale assicurata". Nè, sottolineava la predetta Corte, le conclusioni del CTU erano infirmate da contrarie affermazioni delle parti non avendo queste nulla osservato in sensi opposto.

Avverso tale sentenza l'assicurato propone ricorso in cassazione assistito da due censure.

L'Istituto intimato non svolge attività difensiva.
Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente, deducendo nullità della sentenza per vizio sulla formazione della pronuncia su questione decisiva, allega che la Corte del merito non ha tenuto conto che dopo il deposito della CTU erano state depositate note critiche controdeduttive nelle quali veniva evidenziato che non era stata indicata dal CTU la percentuale delle concause ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 79.

La censura non è accoglibile.

Invero parte ricorrente, pur lamentando il mancato esame da parte del giudice di appello delle note critiche, omette di trascrivere, nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, gli esatti termini in cui tale critiche sono state sottoposte all'esame del detto giudice, impedendo in tale modo qualsiasi sindacato di legittimità.

Con il secondo motivo l'assicurato, denunciando violazione di legge, assume, ponendo il quesito di diritto di cui all'art. 366 bis c.p.c. che la Corte del merito avrebbe dovuto, in base al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 79 procedere alla individuazione della percentuale di concausa delle patologie per la lavorazione svolta.

Il motivo è fondato.

Infatti anche nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia per sè sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (Cass. 4 giugno 2008 n. 14770, Cass. 16 giugno 2001 n. 8165, Cass. 29 maggio 2004 n. 10448 e Cass. 8 ottobre 2007 n. 21021).

Nella specie, invece, la Corte del merito, pur riconoscendo all'attività lavorativa un ruolo concausale nella determinazione delle malattie denunciate, ha escluso la natura professionale di dette malattie incorrendo in tal modo nel denunciato vizio.

La sentenza impugnata pertanto, in accoglimento del motivo in esame, va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione che si atterrà al richiamato principio di diritto.
P.Q.M.

LA CORTE accoglie il secondo motivo del ricorso, rigetta il primo, cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di legittimità, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
 

 
   

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