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Polizia di Stato - Indennità di trasferimento

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Polizia di Stato - Indennità di trasferimento

Nell’articolo 1 della L. 86 del 2001 non c’è alcuna menzione, neanche indiretta, alla necessità di dover valutare anche l’ulteriore requisito della sussistenza di una distanza minima chilometrica tra le sedi di servizio interessate al trasferimento dell’appartenente alla Polizia di Stato.
D’altra parte, anche il trasferimento d’ufficio in un comune inferiore a 10 km alla sede di servizio comporta per l’interessato un sacrificio oggettivo, essendo il medesimo costretto ad affrontare nuovi oneri e disagi.

 
 
 

N. 08211/2010 begin_of_the_skype_highlighting              08211/2010      end_of_the_skype_highlighting REG.SEN.

N. 05490/2005 begin_of_the_skype_highlighting              05490/2005      end_of_the_skype_highlighting REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5490 del 2005, proposto da:
#################### ####################, rappresentato e difeso dall'avv. -

contro

Ministero dell'Interno, Questura di Caserta, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE VI n. 3045/2005 begin_of_the_skype_highlighting              3045/2005      end_of_the_skype_highlighting, resa tra le parti, concernente RICONOSCIMENTO BENEFICIO ECONOMICO DELLA INDENNITA' DI TRASFERIMENTO

 


 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Questura di Caserta;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 novembre 2010 il Cons. Luciano Barra Caracciolo e uditi per le parti gli avvocati dello Stato De Felice.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 


 

FATTO

Con la sentenza in epigrafe, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha respinto il ricorso presentato dal sovrintendente capo della Polizia di Stato #################### #################### avverso il diniego (nota del 1° settembre 2001) di attribuzione del trattamento economico di cui alla legge 19 marzo 2001, n.86 (c.d. indennità di trasferimento), richiesto in dipendenza del trasferimento d’ufficio dal -

Riteneva il Tribunale che la nota impugnata avesse correttamente fatto riferimento a circolari e note ove l’Amministrazione aveva chiarito che il presupposto per beneficiare dell’indennità fosse la sussistenza di una distanza minima di dieci chilometri tra la sede di provenienza e quella di destinazione del dipendente, presupposto conforme alla finalità della legge 10 marzo 1987, n. 100 e poi della legge 23 marzo 2001, n.86. Tale indennità continuativa mutuava lo scopo ed il regime di quella di missione ordinaria, come attestava l’interpretazione letterale e logico-sistematica della normativa, che aveva condotto all’introduzione del requisito della distanza minima in sede di emanazione della circolare applicativa della legge, non rilevando il mancato richiamo alla legge 2 aprile 1979, n.97 (in tema di missione continuativa) da parte della legge n.86 del 2001, per quanto in precedenza contenuto nella legge n.100 del 1987. Il mutamento richiamato in ricorso, incentrato sull’omesso richiamo, da parte della nuova legge, dell’art.13 della l. n.97 del 1979 (che a sua volta agganciava il trattamento all’art.12, commi 1 e 2, della legge 26 luglio 1978, n.417 consentendo tuttavia anche il richiamo dell’art.1 s.l. che derogava, in funzione dei dieci chilometri, al limite di trenta chilometri fissato per tutti i pubblici dipendenti), non rilevava, poiché l’indennità di trasferimento risultava assoggettata allo stesso regime giuridico dell’indennità di missione, omogeneità che rendeva comuni i presupposti spaziali di godimento. Ove il legislatore avesse inteso discostarsi dal regime vigente, abolendo il requisito della distanza minima, avrebbe dovuto prevederlo espressamente (l’indennità in questione sarebbe spettata alle sole categorie nominate dalla legge n.86 del 2001 in applicazione del canone ermeneutico dell’art.14 Disp. sulla legge in generale; si sarebbe determinata una deroga “ex lege” n. 100 del 2001 alla deroga “ex lege” n.97 del 1979 della disciplina generale ex lege n. 836del 1973).

Appella l’originario ricorrente deducendo i seguenti motivi:

Dal combinato disposto degli artt.1 e 13 della legge n.86 del 2001 emerge la chiara volontà di innovare il regime giuridico dell’indennità di trasferimento differenziando i trasferimento effettuati prima o dopo il 31 dicembre 2000, prevedendo solo per quelli anteriori il requisito della distanza minima tra sede di provenienza e sede di destinazione, mentre per quelli posteriori si applica la disciplina dell’art.1 s.l. che non richiama l’art.13 della l. n.97 del 79, non prevedendo così la distanza minima. Erra il Tribunale amministrativo nell’applicare le Disposizioni sulla legge in generale in quanto l’art.13 cit. ponendo una differenziazione tra nuovi e vecchi trasferimenti abroga evidentemente l’art.1, comma 1, della legge 100 del 1987, per incompatibilità con le disposizioni dell’art.1 della legge n.86 del 2001 (art.15 Disp. sulla legge in generale). Il diniego basato sulla distanza minima di 10 chilometri si fondava sulla normativa pregressa dettata dall’art.1 della l.n.100 del 1987 col suo rinvio al trattamento economico previsto dall’art.13 della l.n.97 del 1979 e su tale normativa si basavail precedente di cui a Cons. Stato, Ad. Plen., 28 aprile 1999, n. 7. Ma l’art.1 della legge n.86 del 2001 contiene una disciplina compiuta della indennità di trasferimento, senza rinvio al trattamento economico previsto per l’indennità di missione dei magistrati e quantifica con precisione lo specifico trattamento economico spettante, con un richiamo ai soli fini della quantificazione delle diarie di missione. Tra i presupposti compiutamente regolati dalla disciplina del 2001 non vi è spazio per un richiamo alle distanze minime, non recependosi più il trattamento complessivo dell’indennità di missione e la diaria è individuata esclusivamente come parametro di riferimento quantitativo, registrandosi un chiaro dato normativo che non consente di inserire un ulteriore presupposto, né esplicitato né indirettamente richiamato.

L’appellante chiede altresì la correzione del nome del procuratore costituito in primo grado per il ricorrente, erroneamente indicato nella sentenza impugnata.

Si è costituita l’Amministrazione riportandosi alle difese di primo grado e producendo documentazione al fine di invocare la reiezione dell’appello.

DIRITTO

1. Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (basato sulla disciplina applicabile al tempo dell’instaurazione delle controversia), presupposto per la erogazione della indennità di cui all'art. 1 della l. 10 marzo 1987, n. 100 era la distanza superiore ai dieci chilometri tra la nuova e la originaria sede di servizio. L'indennità continuativa, prevista per gli appartenenti alle forze armate nonché alle forze di polizia, dall'art. 1 l. n. 100 del 1987 - in estensione di analogo trattamento già previsto per i magistrati dall'art. 13 l. 2 aprile 1979, n. 97, pur se aveva i medesimi presupposti della indennità di missione ordinaria (la quale va corrisposta in ragione del temporaneo spostamento dal luogo nel quale si presta servizio), era considerata mutuare da esso lo scopo, che è proprio quello di sopperire alle maggiori necessità derivanti da un trasferimento, in questo caso permanente, in altro comune, con la conseguenza che essa (indennità) doveva considerarsi sottoposta all'identico regime giuridico dell’indennità ordinaria di missione, ivi compresa la sussistenza, ai fini della sua erogazione, della distanza minima di dieci chilometri tra la nuova e l'originaria sede di servizio (Cons. Stato, da IV, 30 luglio 1994, n. 643 fino a IV, 12 maggio 2006, n.2664).

Sennonché l’attuale disciplina della indennità di trasferimento è rinvenibile negli artt. 1 e 13 della successiva legge 29 marzo 2001, n. 86 per cui, per il personale suddetto (e per le altre categorie ivi indicate), la spettanza (per i trasferimenti successivi al 31 dicembre 2000, come nel caso in esame) è basata sui presupposti del trasferimento d’ufficio e della diversità del comune di destinazione, onde la questione va riesaminata alla luce del jus superveniens. In proposito va peraltro richiamato una recente decisione di questo Consiglio cha ha affrontato la questione sotto il profilo normativo qui in rilievo, precedente quest’ultimo che si ritiene di condividere (CGA, 18 novembre 2009, n.1071).

Occorre dunque stabilire se al personale delle Forze armate e delle forze di polizia (ed al personale appartenente alla carriera prefettizia), trasferito d’autorità ad altra sede di servizio, sita in un comune diverso da quello di provenienza, competa oggi l’indennità per il trasferimento di sede, previsto dall’art. 1 della l. 29 marzo 2001, n. 86, indipendentemente dalla misura della distanza tra le due sedi, ovvero se tale beneficio rimanga subordinato alla sussistenza del presupposto della distanza di almeno 10 chilometri tra le sedi, come affermato dalla giurisprudenza nella vigenza dell’art. 1 della l. 10 marzo 1987, n. 100.

Sostiene l’Amministrazione resistente (come pure la sentenza qui impugnata) che anche in presenza del citato art. 1 della l. n. 86 del 2001, mancando una esplicita abrogazione della precedente normativa, il beneficio debba ritenersi ancorato ad un limite minimo chilometrico. Ciò anche perché la speciale indennità in questione, secondo il previgente orientamento giurisprudenziale richiamato in apertura, in quanto“… connessa al trasferimento del personale militare o equiparato, pur non partecipando della natura dell’indennità di missione ordinaria … mutua comunque da quest’ultima lo scopo, che è, appunto, quello di sovvenire alle maggiori necessità derivanti da un trasferimento (permanente) in altra sede …”.

La suesposta tesi non può essere condivisa.

2. Come è noto, la l. 29 marzo 2001, n. 86 ha ampliato in alcune parti la normativa contenuta nella l. 10 marzo 1987, n. 100, riguardante il trattamento economico del trasferimento d’autorità del personale militare, disponendo, tra l’altro, che la nuova disciplina abbia decorrenza per i trasferimenti effettuati dal 1° gennaio 2001, rimanendo in vigore la precedente disciplina fino al 31 dicembre 2000 (così espressamente l’art.13).

In particolare, l’art. 1 della richiamata l. n. 86 del 2001 testualmente recita: “Al personale volontario coniugato e al personale in servizio permanente delle Forze armate, delle Forze di polizia ad ordinamento militare e civile, agli ufficiali e sottufficiali piloti di complemento in ferma dodecennale di cui alla legge 19 maggio 1986, n. 224, e, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 28, comma 1, del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139, al personale appartenente alla carriera prefettizia, trasferiti d'autorità ad altra sede di servizio sita in un comune diverso da quello di provenienza, compete una indennità mensile pari a trenta diarie di missione in misura intera per i primi dodici mesi di permanenza ed in misura ridotta del 30 per cento per i secondi dodici mesi”.

L’interpretazione letterale della citata disposizione - che alla luce dell’art. 12 delle Disposizioni della legge in generale precede in ragione del principio di legalità, quando offre un risultato coerente e non equivoco, ogni altra interpretazione - induce a ritenere che oggi l’indennità di trasferimento abbia una disciplina autonoma e basata su presupposti compiutamente regolati dalla norma in esame, che sono:

a) trasferimento del militare d’autorità;

b) predeterminazione del criterio di quantificazione, che, in sostanza, non è più affidato al meccanismo di rinvio ad altra normativa;

c) ubicazione della nuova sede di servizio in un comune diverso da quello di provenienza.

Non si rinviene, invece, nella lettera della disposizione, alcuna menzione, neanche indiretta, alla necessità di dovere valutare anche l’ulteriore requisito della sussistenza o meno di una distanza minima chilometrica tra le sedi di servizio interessate al trasferimento del militare.

2.1. Ritiene, inoltre, il Collegio che l’orientamento giurisprudenziale invocato dalla sentenza impugnata e sopra richiamato, formatosi sotto la vigenza dell’art. 1 della menzionata l. n. 100 del 1987 - secondo il quale l’indennità di trasferimento contemplata dalla citata normativa mutuava lo stesso regime giuridico dell’indennità di missione (ivi compresa la distanza chilometrica minima di 10 chilometri tra le due sedi) - non può essere correttamente richiamato dopo l’entrata in vigore dell’art. 1 della l. n. 86 del 2001, che si configura quale norma autonomamente disciplinante il beneficio stesso.

Invero, con l’attuale disposizione non si opera alcun rinvio all’intero regime giuridico dell’indennità di missione, non venendo recepito il trattamento economico complessivo di tale indennità, ma la diaria è individuata esclusivamente come parametro di riferimento quantitativo dell’indennità spettante al militare trasferito.

2.2. D’altra parte, non può essere revocato in dubbio che anche il trasferimento d’ufficio in un comune inferiore a 10 chilometri dalla precedente sede di servizio - ancorché rispondente ad un precipuo interesse pubblico ed a specifiche esigenze di servizio dell’autorità disponente - comporta per l’interessato un oggettivo sacrificio, essendo il medesimo costretto ad affrontare nuovi oneri ed ulteriori disagi.

Pertanto, anche sotto questo profilo, appare ragionevole riconoscere l’indennità de qua in chiave compensatrice delle maggiori spese sostenute dal militare

3. In corretta applicazione dei su esposti principi, nel caso di specie, trattandosi di trasferimento disposto ad altra sede di servizio, sita in un comune diverso dalla precedente, va riconosciuto all’originario ricorrente, odierno appellato, il beneficio economico invocato.

Pertanto, l’appello va, in tale parte, accolto.

3. E’ altresì, nella presente sede di appello, da disporre la correzione della sentenza impugnata nella parte in cui il procuratore costituito in primo grado per l’originario ricorrente è indicato con il cognome di “####################”, anziché quello, esatto, di “####################”

Quanto alle spese, si rinvengono giuste ragioni per disporne l’integrale compensazione fra le parti del giudizio, attesa la novità della questione al momento della proposizione dello stesso atto di appello.

P.Q.M.

 


 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei termini di cui in motivazione, annullando per l'effetto la sentenza impugnata.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 novembre 2010 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Giuseppe Severini, Presidente

Luciano Barra Caracciolo, Consigliere, Estensore

Roberto Garofoli, Consigliere

Bruno Rosario Polito, Consigliere

Roberto Giovagnoli, Consigliere

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/11/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)



 

Polizia di Stato - Disposizioni urgenti in tema di trattamenti pensionistici anticipati

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Polizia di Stato - Disposizioni urgenti in tema di trattamenti pensionistici anticipati

ORDINANZA N. 10

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Ugo                             DE SIERVO                                    Presidente

-           Paolo                           MADDALENA                                 Giudice

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     “

-           Alfonso                       QUARANTA                                           “

-           Franco                         GALLO                                                    “

-           Luigi                            MAZZELLA                                            “

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             “

-           Sabino                         CASSESE                                                “

-           Maria Rita                   SAULLE                                                  “

-           Giuseppe                     TESAURO                                               “

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       “

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     “

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          “

-           Paolo                           GROSSI                                                   “

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 54, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e dell’art. 1, lett. a), del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 30 marzo 1998 (Programmazione dell’accesso al pensionamento di anzianità dei militari, ai sensi dell’art. 59, comma 55, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), promosso dalla Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, nel procedimento vertente tra V. R. e il Ministero dell’Interno ed altra, con ordinanza del 29 maggio 2009, iscritta al n. 144 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 17 novembre 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto che la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, con ordinanza del 29 maggio 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 54, della legge 27 dicembre 1997 n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e dell’art. 1 del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 30 marzo 1998, emanato di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro per la funzione pubblica e gli affari regionali (Programmazione dell’accesso al pensionamento di anzianità dei militari, ai sensi dell’art. 59, comma 55, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), per violazione degli artt. 36 e 38 della Costituzione;

che il rimettente espone in punto di fatto che un dipendente della Polizia di Stato presentava in data 6 giugno 1997 domanda di dimissioni a decorrere dal 30 dicembre 1997, avendo maturato l’anzianità prescritta dalla legge per ottenere il trattamento di quiescenza, e veniva collocato a riposo a decorrere dal 30 dicembre 1997;

che, tuttavia, l’art. 1 del decreto-legge 3 novembre 1997, n. 375 (Disposizioni urgenti in tema di trattamenti pensionistici anticipati) – entrato nelle more in vigore –  sanciva la immediata sospensione dell’applicazione di ogni disposizione di legge, di regolamento e di accordi collettivi che prevedevano il diritto a trattamenti pensionistici di anzianità anticipati rispetto all’età pensionabile o alla età prevista per la cessazione dal servizio in base ai singoli ordinamenti, e tale sospensione era definitivamente confermata dall’art. 59, comma 54, della legge n. 449 del 1997 sino alla data della sua entrata in vigore (1° gennaio 1998);

che per effetto della suddetta normativa, come integrata dal citato d.m. 30 marzo 1998, il ricorrente nel giudizio principale subiva il differimento della pensione al mese di aprile successivo, con fissazione del collocamento a riposo alla data del 1° aprile 1998;

che pertanto, essendo cessato dal servizio il 30 dicembre 1997 e così rimasto senza retribuzione per i mesi di gennaio, febbraio e marzo del 1998, egli chiedeva dichiararsi il suo diritto ad ottenere il trattamento di quiescenza dal giorno della cessazione dal servizio (30 dicembre 1997), con conseguente condanna del Ministero dell’interno e della Direzione provinciale del Tesoro al pagamento in suo favore dei ratei pensionistici relativi alle suddette mensilità, non riscossi per effetto della citata normativa sopravvenuta, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria;

che, in diritto, il giudice a quo, ritenute le norme impugnate rilevanti ai fini del decidere, osserva, con riferimento alla non manifesta infondatezza, che si riproporrebbe la medesima problematica del vuotodi quattro mesi della pensione e della retribuzione già irrazionalmente sofferto dal personale della scuola, cui questa Corte ha ovviato dichiarando l’illegittimità costituzionale – con sentenza n. 439 del 1994 – dell’art. 1, commi 1 e 2-quinquies, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, indi – con sentenza n. 347 del 1997 – dell’art. 1, comma 31, primo periodo, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), in punto di salvezza dell’efficacia dell’art. 13, comma 5, lettera b), della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica);

che anche in questo caso il differimento del trattamento pensionistico in danno di dipendenti pubblici rimasti privi di retribuzione violerebbe gli artt. 36 e 38 Cost., sottraendo loro il minimo indispensabile per provvedere ai bisogni essenziali della vita;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la inammissibilità o manifesta infondatezza della questione.

Considerato che il giudice rimettente censura l’art. 59, comma 54, della legge 27 dicembre 1997 n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e l’art. 1 del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 30 marzo 1998, emanato di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro per la funzione pubblica e gli affari regionali (Programmazione dell’accesso al pensionamento di anzianità dei militari, ai sensi dell’art. 59, comma 55, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), per violazione degli artt. 36 e 38 della Costituzione;

che l’art. 59, comma 54, della legge n. 449 del 1997 confermava, relativamente al periodo dal 3 novembre 1997 sino alla data di entrata in vigore della medesima legge (1° gennaio 1998), la sospensione delle previgenti norme di legge, di regolamento o di accordo collettivo attributive del diritto, con decorrenza nel periodo suindicato, a trattamenti pensionistici di anzianità anticipati rispetto all’età pensionabile o all’età prevista per la cessazione dal servizio dai singoli ordinamenti;

che in tal modo la norma primaria impugnata rendeva definitiva la sospensione già sancita dall’art. 1 del decreto-legge 3 novembre 1997, n. 375 (Disposizioni urgenti in tema di trattamenti pensionistici anticipati), decaduto per mancata conversione e specificamente abrogato, conservando validità agli atti ed ai provvedimenti adottati e facendo salvi gli effetti prodottisi, dall’art. 63 della legge n. 449 del 1997;

che deve essere disattesa, in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità avanzata dall’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri;

che, invero, sotto il primo profilo, il rimettente motiva adeguatamente, ancorché succintamente, il supposto vulnus agli artt. 36 e 38 Cost., evidenziando a carico del dipendente cessato dal servizio la perdita del minimo indispensabile per provvedere ai bisogni essenziali della vita, a causa della subìta indisponibilità temporanea sia della retribuzione sia della pensione;

che, sotto il secondo profilo, la previsione del termine di differimento del trattamento pensionistico contenuta nell’impugnato art. 1 del d.m. 30 marzo 1998 è strettamente collegata alla disciplina dettata dalla norma primaria, congiuntamente censurata, di (definitiva conferma della) sospensione transitoria di tutte le disposizioni attributive del diritto a trattamenti pensionistici di anzianità, sì da autorizzare senz’altro il sindacato della Corte sul provvedimento, di fonte legale, di moratoria dei pensionamenti anticipati;

che, quanto al merito, questa Corte ha già più volte escluso l’illegittimità costituzionale di interventi di “blocco” dell’accesso a trattamenti pensionistici di anzianità, come quello censurato in questa sede, tutti ragionevolmente inseriti nel processo di radicale riconsiderazione di tali trattamenti al fine di stabilizzare la spesa previdenziale entro determinati livelli del rapporto con il prodotto interno lordo (sentenze n. 245 del 1997, n. 417 del 1996 e n. 439 del 1994; ordinanze n. 319 n. 18 del 2001, nonché n. 318 del 1997);

che dev’essere, altresì, ribadita l’estraneità alle pensioni cosiddette “anticipate” della garanzia contenuta nell’art. 38 Cost., perché inerente allo stato di bisogno e, quindi, «riservata alle pensioni che trovano la loro causa nella cessazione dell’attività lavorativa per ragioni di età e non anche a quelle il cui presupposto consiste nel mero avvenuto svolgimento dell’attività stessa per un tempo predeterminato» (ordinanza n. 278 del 2003, proprio riguardo alla sospensione temporanea disposta dalla norma primaria qui impugnata; ma, in tal senso, già la sentenza n. 416 del 1999);

che, inoltre, l’impugnato art. 59, comma 54, della legge n. 449 del 1997 prevedeva che i pubblici dipendenti interessati dalla sospensione temporanea dell’accesso al pensionamento di anzianità anticipato (come, appunto, il ricorrente nel giudizio a quo) potessero revocare le dimissioni già previamente accettate dall’amministrazione e, ove già collocati a riposo, persino essere riammessi in servizio a domanda;

che ciò esclude, altresì, il denunciato contrasto con l’art. 36 Cost., perché, essendo disponibili strumenti per la prosecuzione o il ripristino del rapporto d’impiego rimessi alla libera iniziativa dell’interessato, l’effetto economico negativo a suo carico finisce per dipendere dalla sua eventuale scelta di non utilizzarli, ossia da un atto volontario del lavoratore, revocabile con il ritiro della domanda di pensionamento, ancorché accettata, ovvero con la richiesta di riammissione in servizio (in tal senso, sentenza n. 324 del 1999 e ordinanza n. 92 del 1997).

che, infine, inconferente è il richiamo del giudice rimettente alle pronunce di questa Corte specificamente incidenti sulla legislazione relativa alla posizione giuridica del personale della scuola per violazione dell’art. 3 Cost. (sentenze n. 347 del 1997 e n. 439 del 1994);

che, infatti, diversamente dalle fattispecie allora esaminate, caratterizzate dal fisiologico slittamento della richiesta di cessazione dal servizio all’inizio dell’anno scolastico successivo, stavolta non rileva alcun meccanismo specifico di operatività delle dimissioni, tant’è che il parametro dell’art. 3 Cost., in quella sede ritenuto violato in via assorbente, qui non risulta neppure evocato, mentre la norma impugnata inibisce temporaneamente l’accesso al pensionamento anticipato e, dunque, interviene esclusivamente – spostandola necessariamente in avanti – sulla decorrenza del trattamento di quiescenza;

che, quindi, la questione deve ritenersi, per quanto detto, manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 54, della legge 27 dicembre 1997 n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e dell’art. 1 del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 30 marzo 1998, emanato di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro per la funzione pubblica e gli affari regionali (Programmazione dell’accesso al pensionamento di anzianità dei militari, ai sensi dell’art. 59, comma 55, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), sollevata, in riferimento agli artt. 36 e 38 della Costituzione, dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale, per la Regione Puglia con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2011.

 Dispensa dal servizio

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 Dispensa dal servizio per il raggiungimento del limite massimo di mesi diciotto di aspettativa continuata.
 

N. 1064/10 Reg.Dec.

 
 

N.     823     Reg.Ric. 
 

ANNO  2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

     

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, ha pronunciato la seguente

D E C I S I O N E

sul ricorso in appello n. 823/09 proposto da

#################### ####################

rappresentato e difeso dall’avv. Antonio Catalioto ed elettivamente domiciliato in Palermo, via XII Gennaio n. 1/G, presso lo studio dell’avv. Fabrizia Giunta;

c o n t r o

il MINISTERO DELL’INTERNO, la QUESTURA DI #################### e l’UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO - PREFETTURA DI ####################, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, presso i cui uffici in via A. De Gasperi n. 81, sono ope legis domiciliati;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Sicilia - Sezione staccata di Catania (sez. III) - n. 1658/2008, del 15 settembre 2008.

     

Visto il ricorso con i relativi allegati;

     

Viste le memorie depositate il 24 giugno ed il 19 ottobre 2009, nell’interesse delle amministrazioni appellate;

     

Vista l’ordinanza n. 774/09 di questo Consiglio di Giustizia Amministrativa;

     

Visti gli atti tutti della causa;

     

Relatore il Consigliere Pietro Ciani;

     

Uditi alla pubblica udienza del 5 novembre 2009 l’avv. A. Catalioto per l’appellante e l’avv. dello Stato Tutino per le ammini-strazioni appellate;

     

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

F A T T O

     

In data 15/12/1993, il sig. #################### ####################, allora dipendente della Polizia di Stato ed in servizio presso la Questura di ####################, all’esito di accertamenti medici volti ad accertare l’idoneità o meno dello stesso al servizio di istituto nella Polizia di Stato, veniva giudicato dalla C.M.O. di #################### “inidoneo permanentemente al servizio d’istituto in modo parziale D.P.R. n. 738/81, artt. 1 e 2. Controindicato l’impiego in compiti che comportino stress fisici e che non consentano il regolare consumo dei pasti”.

      

Con decreto del 28/10/2003, il #################### veniva quindi trasferito, ai sensi dell’art. 1 D.P.R. 339/1982, dal ruolo degli assistenti ed agenti al ruolo degli operatori e collaboratori tecnici della Polizia di Stato, incarico che assumeva in data 6/11/2003.

      

Con nota prot. n. 757/Ctg. 1.2.12 del 3/3/2006, il ricorrente veniva informato che alla data del 10.11.2005 lo stesso aveva fruito di complessivi giorni 538 di aspettativa continuata.

      

Con nota prot. 1352/Ctg. 1.2.12 del 28/2/2006, la Questura di #################### comunicava al ricorrente l’avvio della procedura di dispensa dal servizio a decorrere dal 19/2/2006 per il raggiungimento del limite massimo di mesi diciotto di aspettativa continuata.

     

Con successiva nota prot. n. 1764/Ctg 1.2.12, la suddetta Questura comunicava al #################### che alla data dell’11/11/2005 aveva fruito di complessivi gg. 529 di aspettativa continuata per motivi di salute.

      

Con nota prot. n. 2007/Ctg. 1.2.12 del 28/3/2006, la Questura di #################### comunicava al ricorrente l’avvio della procedura di dispensa dal servizio per raggiungimento in data 28/2/2006 del limite di mesi diciotto di aspettativa continuata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 68 e 70 del D.P.R. 1957 n. 3.

      

Con nota in pari data, al ricorrente veniva comunicato di presentarsi in data 3.4.2006 alla C.M.O. di #################### per essere sottoposto a visita medica collegiale finalizzata all’acquisizione del giudizio previsto dall’art. 71 D.P.R. 3/1957, ordine cui il #################### ottemperava puntualmente.

      

In data 12/4/2006, egli veniva dimesso con il seguente giudizio: “non idoneo permanentemente al servizio d’Istituto in modo assoluto. Si ulteriormente impiegabile in altri ruoli della P. di S. ed in altre amministrazioni dello Stato”.

      

In data 13/4/2006, il #################### riprendeva servizio.

      

Con nota prot. n. 4403 Ctg. 1.2.12/Pers. del 7.8.2006, la Questura di ####################, premesso che il #################### aveva raggiunto, alla data del 28 febbraio 2006, 540 giorni di aspettativa continuata e che da tale data lo stesso non aveva effettuato tre mesi di servizio attivo, comunicava l’avvio della procedura di dispensa dal servizio con contestuale sospensione dello stipendio.

      

In data 9 agosto 2006, il ricorrente, in ossequio all’ordine impartitogli con la medesima nota del 7/8/2006, si presentava alla C.M.O. di #################### e si sottoponeva ai prescritti accertamenti medico legali.

      

In data 23 agosto 2006 veniva dimesso con il seguente giudizio: “Temporaneamente non idoneo al servizio d’Istituto nella P. di S. per gg. 26”.

      

Avverso tale provvedimento, il #################### proponeva ricorso alla C.M.O. di seconda istanza di Palermo, la quale, in data 19/9/2006, dichiarava il ricorrente “temporaneamente non idoneo al servizio d’Isti-tuto per gg. 90”.

      

Nelle more, con nota prot. cont. 1.2.2/5481 del 15 settembre 2006, la Questura comunicava al ricorrente che il raggiungimento del limite massimo di aspettativa aveva prodotto la sospensione dello stipendio.

      

Con decreto del Ministero dell’Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza n. 333-E/ROC 4406/17 147/2006 emesso in data 3.10.2006 e notificato in data 9.10.2006, il ricorrente veniva dispensato dal servizio a decorrere dal 5 agosto 2006, per avere superato il periodo massimo di aspettativa.

      

Avverso il suddetto decreto e gli atti presupposti, connessi e conseguenti, il #################### proponeva ricorso al T.A.R. Catania per chiedere l’annullamento degli stessi e la condanna dell’Amministrazione alla corresponsione della retribuzione sospesa, a decorrere dalla data di pretesa scadenza del limite massimo di aspettativa e sino a quella di riammissione in servizio, deducendo: “violazione e falsa applicazione dell’art. 71 del D.P.R. n. 3/1957 e dell’art. 9 del D.P.R. 339/1982 nonché dell’art. 70 del D.P.R. n. 3/1957”.

      

Si costituiva l’Amministrazione intimata per chiedere il rigetto del ricorso.

      

Con la sentenza n. 1658/08, il T.A.R. adito rigettava il ricorso per infondatezza.

      

Con l’appello in epigrafe, il sig. #################### ha chiesto la riforma della suddetta sentenza, deducendone l’erroneità nella parte in cui ha affermato la sussistenza, nel caso di specie, dei requisiti richiesti dalle norme sul procedimento di dispensa dal servizio (D.P.R. 3/1957 e 339/1982): ovvero, la manifestazione di un giudizio medico legale di inidoneità assoluta ed il superamento del periodo massimo previsto per l’aspettativa per infermità.

      

Le Amministrazioni appellate hanno replicato chiedendo il rigetto dell’appello per infondatezza.

      

Alla pubblica udienza del 5 novembre 2009 la causa è stata trattenuta in decisione.

D I R I T T O

      

Pare  utile, ai fini del  decidere, richiamare qui di seguito gli aspetti salienti della controversia in argomento.

      

Il Direttore Centrale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale per le Risorse Umane, con il provvedimento impugnato in primo grado n. 333-E/ROC.4406/17 147/2006 emesso in data 3 ottobre 2006, decretava, con particolare riferimento agli artt. 71 e 129, commi 1 e 3, del D.P.R. n. 3/1957 ed all’art. 15 del D.P.R. n. 461/2001, la dispensa dal servizio del collaboratore tecnico della Polizia di Stato, #################### ####################, a decorrere dal 5 agosto 2006, per aver superato il periodo massimo di aspettativa.

      

Il Giudice di prime cure ha ritenuto legittimo il suddetto provvedimento in quanto, pur rilevando dallo stesso che il #################### è stato dichiarato solo temporaneamente non idoneo al servizio d’Istituto nella Polizia di Stato, lo stesso non si sarebbe avvalso tempestivamente della facoltà di richiedere un ulteriore periodo di aspettativa senza assegni, prevista dall’art. 70 del D.P.R. n. 3/1957.

      

Tale decisione non pare condivisibile.

      

Invero, l’art. 71 del D.P.R. n. 3/1957, contenente il “Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”, richiamato nel provvedimento impugnato, prevede che “Scaduto il periodo massimo previsto per l’aspettativa per infermità dall’art. 68 e dall’art. 70, l’impiegato che risulti non idoneo per infermità a riprendere servizio è dispensato ove non sia possibile utilizzarlo, su domanda, in altri compiti attinenti alla sua qualifica”.

     

Al riguardo, per quel che concerne la suddetta possibilità di essere utilizzato in altri compiti, onde evitare la dispensa, va precisato che nei confronti del ####################, atteso il suo particolare status, trova specifica applicazione il D.P.R. n. 339/1982, concernente gli appartenenti alla Polizia di Stato, il cui art. 1 stabilisce che: “Il personale dei ruoli della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia giudicato assolutamente inidoneo per motivi di salute, anche dipendenti da causa di servizio, all’assolvimento dei compiti di Istituto può, a domanda, essere trasferito nelle corrispondenti qualifiche di altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, sempreché l’infermità accertata ne consenta l’ulteriore impiego”.

     

Orbene, atteso che il #################### era già stato trasferito in altro ruolo della Polizia di Stato, il quadro normativo di riferimento, per la soluzione della controversia in argomento, va completato con le disposizioni di cui all’art. 9 del citato D.P.R. 339/1982, il quale stabilisce che “Qualora il personale di cui all’art. 1 sia ritenuto non idoneo all’assol-vimento dei compiti propri degli altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato ovvero per esigenza di servizio non sia possibile trasferirlo in altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, è dispensato dal servizio ai sensi degli artt. 129 e 130 del testo unico approvato con D.P.R. 3/1957”.

      

Dal combinato disposto delle norme soprarichiamate emerge con chiarezza che, per applicare la dispensa dal servizio ad un appartenente alla Polizia di Stato, è necessario che lo stesso, giudicato assolutamente inidoneo al servizio d’Istituto, venga poi riconosciuto anche non idoneo all’assolvimento dei compiti in altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato.

     

Invero, dagli atti di causa emerge inconfutabilmente che il #################### non è mai stato dichiarato non idoneo, se non temporaneamente, negli altri ruoli della Polizia di Stato; nello specifico, nel ruolo dei collaboratori tecnici della Polizia di Stato in cui lo stesso militava contestualmente allo svolgimento dei fatti di causa.

     

Infatti, lo stesso:

- in data 15/12/1993, veniva giudicato dalla C.M.O. di #################### “inidoneo permanentemente al servizio d’istituto in modo parziale D.P.R. n. 738/81, artt. 1 e 2. Controindicato l’impiego in compiti che comportino stress fisici e che non consentano il regolare consumo dei pasti”;

- a seguito di tale giudizio di inidoneità, con decreto del 28/10/2003, veniva trasferito, ai sensi dell’art. 1 D.P.R. 339/1982, dal ruolo degli assistenti ed agenti al ruolo degli operatori e collaboratori tecnici della Polizia di Stato;

- in data 12/4/2006, veniva riconosciuto dalla C.M.O. di #################### nuovamente “non idoneo permanentemente al servizio d’Istituto in modo assoluto. Si ulteriormente impiegabile in altri ruoli della P. di S. ed in altre amministrazioni dello Stato”;

- in data 23 agosto 2006 veniva dimesso dalla C.M.O. di #################### con il seguente giudizio: “Temporaneamente non idoneo al servizio d’Isti-tuto nella P. di S. per gg. 26”, provvedimento modificato, in data 19/9/2006, a seguito di ricorso del ####################, dalla C.M.O. di seconda istanza di Palermo, in “temporaneamente non idoneo al servizio d’Isti-tuto per gg. 90”.

     

Per “servizio d’Istituto” non si può che intendere quello espletato nel ruolo degli assistenti ed agenti della Polizia di Stato.

     

Tuttavia, qualora con quest’ultimo giudizio la C.M.O. abbia voluto riferirsi a quello in atto svolto dal #################### nel ruolo degli operatori e collaboratori tecnici della Polizia di Stato, ne consegue che, in ogni caso, detta Commissione ha espresso nei confronti dello stesso soltanto un giudizio di “inidoneità temporanea”, requisito insufficiente perché l’Amministrazione potesse decretarne la dispensa.

     

Il Collegio condivide, altresì, il secondo motivo di censura proposto dall’appellante, secondo il quale l’impugnata sentenza del T.A.R. sarebbe errata anche nella parte in cui ha affermato l’esistenza, nel caso di specie, dall’ulteriore requisito richiesto dalle norme sul procedimento di dispensa dal servizio, di cui al D.P.R. 3/1957 ed al D.P.R. 339/1982, ovvero “il superamento del periodo massimo previsto per l’aspettativa per infermità dall’art. 68 e dall’art. 70”.

     

Dal foglio matricolare e caratteristico, agli atti del giudizio, si evince che il periodo di aspettativa da computare ai fini del procedimento di dispensa inizia a decorrere dal 4 dicembre 2003, atteso che il #################### ha in precedenza prestato servizio fino a quella data ininterrottamente dal 24 luglio 2002 e, quindi, per più dei prescritti tre mesi ido-nei ad interrompere l’avvio della procedura in argomento.

     

Dall’impugnato provvedimento di dispensa si evince che l’inte-ressato avrebbe maturato il periodo massimo di aspettativa alla data del 4 agosto 2006.

     

Invero, dagli atti matricolari si evince che, dalla suddetta data del 4 dicembre 2003 al 4 agosto 2006, il #################### ha fruito di un periodo di aspettativa continuata per infermità pari a 426 giorni, inferiore a quello prescritto di giorni 540 (18 mesi).

     

Per i motivi suddetti, l’appello va accolto.

      

Ritiene il Collegio che ogni altro motivo od eccezione possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

     

Sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese e gli onorari di entrambi i gradi del giudizio.

P. Q. M.

     

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, accoglie l’appello in epigrafe.

     

Spese e onorari del doppio grado di giudizio compensate.

     

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

     

Così deciso in Palermo, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 5 novembre 2009, con l’intervento dei signori: Raffaele Maria De Lipsis, Presidente, Guido Salemi, Gabriele Carlotti, Filippo Salvia, Pietro Ciani, estensore, componenti.

F.to: Raffaele Maria De Lipsis, Presidente

F.to: Pietro Ciani, Estensore

F.to: Maria Assunta Tistera, Segretario

                            

Depositata in segreteria

 

il  09 agosto 2010
 
 

Se la divisa aziendale va indossata nello spogliatoio, al dipendente va retribuito il tempo

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Se la divisa aziendale va indossata nello spogliatoio, al dipendente va retribuito il tempo necessario
Laddove è il datore a stabilire le modalità dell'operazione, come per gli operai in fabbrica, l'attività rientra nella prestazione effettiva. Niente compenso a chi può uscire da casa con l'abito da lavoro: la vestizione è solo «diligenza preparatoria»
(Sezione lavoro, sentenza n. 19358/10; depositata il 10 settembre)


Corte Cassazione Civile, sezione lavoro - Sentenza n. 19358/2010 Riduci

Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro - Sentenza n. 19358 del 10/09/2010
Attività dei lavoratori - Prestazioni per la preparazione all'attività lavorativa finale - Quando non è concessa la facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa, in quanto l'operazione è diretta dal datore di lavoro che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, il tempo impiegato rientra nel lavoro effettivo, e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve corrispondere ad una retribuzione aggiuntiva.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Un gruppo di dipendenti della U. I. srl., con separati ricorsi poi riuniti, convenivano in giudizio la predetta società per chiedere la corresponsione dell’equivalente di venti minuti di retribuzione giornaliera per 45 settimane, a fronte del c.d. “tempo tuta”. Esponevano che per entrare nel perimetro aziendale dovevano transitare per un tornello apribile mediante tesserino magnetico di riconoscimento, indi percorrere cento metri ed accedere allo spogliatoio, ivi indossare gli indumenti di lavoro forniti dall’azienda, effettuare una seconda timbratura del tesserino prima dell’inizio del lavoro; al termine, dovevano effettuare una terza timbratura, accedere allo spogliatoio per lasciare gli abiti di servizio, passare una quarta volta il tesserino al tornello ed uscire.

Deducevano che il tempo occorrente per le suddette operazioni costituiva una “messa a disposizione” delle proprie energie in favore del datore di lavoro, onde il tempo stesso doveva essere retribuito.

2. Si costituiva la società ed eccepiva che nel corso delle operazioni suddette i lavoratori rimanevano comunque liberi di disporre del proprio tempo e non erano sottoposti al potere datoriale, mentre soltanto con l’inizio effettivo del turno di lavoro essi erano sottoposti agli ordini ed alle indicazioni dei superiori gerarchici.

3. Il Tribunale respingeva la domanda attrice, ritenendo che il tempo necessario per la vestizione non costituisse tempo di lavoro retribuito.

Proponevano appello gli attori.

Si costituiva e si opponeva la U., la quale dava atto della conciliazione intervenuta nei confronti di P. P..

La Corte di Appello di (OMISSIS), in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva le domande attrici nella misura - equitativamente determinata - del 50%.

Questa in sintesi la motivazione della sentenza di appello:
- come risulta dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 15734/2003, va considerato tempo di lavoro anche quello in cui il lavoratore si tiene a disposizione del datore di lavoro;
- quando l’obbligo di vestizione della divisa (Cass. n. 3763.1998) deve essere eseguito secondo pregnanti disposizioni del datore di lavoro circa il tempo ed il luogo dell’esecuzione, tale attività risulta “eterodiretta” e quindi dà diritto alla retribuzione;
- applicati tali principi, ne risulta che il tempo impiegato nella vestizione va considerato orario di lavoro;
- ciò risulta confermato dalla direttiva n. 104/1993 della Comunità Europea, recepita nell’art. 1 comma 2 del Decreto Legislativo n. 66/2003 (utilizzata come indicazione interpretativa);
- poiché non è possibile individuare per ciascun attore i tempi effettivamente impiegati per indossare e dismettere gli abiti da lavoro, soccorre una valutazione equitativa ex art. 432 Codice di Procedura Civile.
4. Ha proposto ricorso per Cassazione la U. I. srl., deducendo cinque motivi.

Gli attori sono rimasti intimati.

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, degli artt. 1 e 3 del R.D. n. 692/1923, del R.D. n. 1955/1923, 1 comma 1 del Decreto Legislativo n. 66/2003, del DPR. n. 327.1980, del Decreto Legislativo n. 155/1997, 12 delle Preleggi, 2094, 2104 Codice Civile, 112 e segg. Codice di Procedura Civile, 2997 Codice Civile: la Corte di Appello ha violato la normativa inerente all’orario di lavoro ed il criterio dell’onere della prova, affermando apoditticamente che durante il tempo della vestizione il lavoratore sarebbe a disposizione del datore di lavoro. Viceversa detto tempo non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro. Il lavoratore non è a disposizione del datore di lavoro e non è nell’esercizio delle sue attività. Non vi è sinallagma contrattuale, ma solo un’attività preparatoria per la resa della
prestazione.

6. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, degli artt. 2099 Codice Civile, 36 Cost., omessa motivazione e mancata valutazione della disciplina di cui ai CCNL di settore 1991, 1995 e 1999, degli accordi aziendali, delle regole sull’interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e segg. Codice di Procedura Civile. Trascritte le norme contrattuali sull’orario di lavoro, deduce la ricorrente che la riduzione di orario pari ad un’ora settimanale ha avuto riguardo al lavoro effettivo.

7. Con il terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in fatto circa un punto decisivo della controversia, a sensi dell’art. 360 n. 5 CPC, deducendo l’omesso esame degli accordi sindacali e la mancata applicazione della regola generale dell’assorbimento del trattamento di miglior favore riferibile anche alle pause contrattuali - violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, degli artt. 1362 segg. Codice Civile.

Ogni dipendente può entrare in fabbrica fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno e quando ha indossato l’abito da lavoro è libero di impiegare il tempo come desidera. Tali circostanze sono state capitolate come prova. Segue la trascrizione delle fonti contrattuali e si deduce che l’eventuale credito orario doveva essere compensato, fino a concorrenza, con le riduzioni di orario effettivo.

8. I motivi sopra riportati possono essere esaminati congiuntamente, in quanto tra loro strettamente connessi.

Essi risultano infondati.

La giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, dopo qualche incertezza, si è orientata nel senso che “Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito” Così Cass. n. 15734.2003.

9. Successivamente il principio è ripreso da Cass. n. 19273.2006: “Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito. (Nella specie, riguardante un periodo antecedente alla entrata in vigore del d.lgs. 8 aprile 2003 n. 66 di recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 200/34, la S.C. ha confermato la sentenza di merito
secondo la quale il tempo della vestizione, facendo corpo con quello concernente la obbligazione principale ed attenendo un vincolo che caratterizza inevitabilmente la fase preparatoria, doveva ritenersi già remunerato dalla retribuzione ordinaria, senza necessità di distinguere la retribuzione a seconda dell’esistenza dell’obbligo di indossare o meno gli indumenti da lavoro)”.

10. Più recentemente il principio è confermato da Cass. n. 15492.2009: “L’art. 5 del contratto collettivo nazionale per i lavoratori delle industrie meccaniche private in data 8 giugno 1999 e del contratto collettivo nazionale delle aziende meccaniche pubbliche aderenti all’Intersind, nella parte in cui prevede che sono considerate ore di lavoro quelle di effettiva prestazione, deve essere interpretato nel senso che siano da ricomprendere nelle ore di lavoro effettivo, come tali da retribuire, anche le attività preparatorie o successive allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché eterodirette dal datore di lavoro, fra le quali deve ricomprendersi anche il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, qualora il datore di lavoro ne disciplini il tempo ed il luogo di esecuzione.

Né può ritenersi incompatibile con tale interpretazione la disposizione contenuta nell’art. 5 citato secondo la quale le ore di lavoro sono contate con l’orologio dello stabilimento o reparto, posto che tale clausola non ha una funzione prescrittiva, ma ha natura meramente ordinatoria e regolativa, ed è destinata a cedere a fronte dell’eventuale ricomprensione nell’orario di lavoro di operazioni preparatorie e/o integrative della prestazione lavorativa che siano, rispettivamente, anteriori o posteriori alla timbratura dell’orologio marcatempo”.

11. La giurisprudenza sopra citata conferma che nel rapporto di lavoro deve distinguersi una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 seconda comma Codice Civile) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria.

Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.

12. Con il quarto motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, degli artt. 414, 112, 115 Codice di Procedura Civile, 2797 Codice Civile e “decadenza”: la Corte di Appello ha violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, perché ha accolto una domanda diversa da quella proposta, vale a dire la corresponsione della retribuzione per tutto il tempo intermedio tra l’accesso al primo tornello e l’uscita definitiva dall’azienda.

13. Il quinto motivo del ricorso attiene alla violazione degli artt. 112, 414, 432 Codice di Procedura Civile, 1226 e 2697 Codice Civile, vale a dire la quantificazione della domanda sulla base di un arbitrario esercizio dei poteri equitativi dinanzi ad una carente allegazione dei fatti contenuta nella domanda.

14. Detti due motivi, da esaminarsi anch’essi congiuntamente, sono infondati.

Il giudice di merito non ha accolto una domanda diversa da quella formulata, ma ha attribuito un “quid minus” rispetto a quanto domandato dagli attori, finendo per considerare come tempo di lavoro o tempo a disposizione, eterodiretto, la metà del tempo mediamente impiegato per passare dal primo al secondo tornello e dal terzo al quarto. La relativa liquidazione è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce la norma processuale, con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato.

15. Non avendo la controparte svolto attività difensiva, non vi è luogo a provvedere sulle spese del grado.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso; nulla per le spese del processo di legittimità.

 

Requisiti di idoneità psico-fisica-attitudinale richiesti per l'accesso a posti di vigile urbano

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Requisiti di idoneità psico-fisica-attitudinale richiesti per l'accesso a posti di vigile urbano e di agente della polizia di stato


Il candidato ad un concorso pubblico, indetto da un ente locale per la copertura di posti di vigile urbano, impugna innanzi al Tar il provvedimento che, a conclusione della verifica dei requisiti di idoneità psico-fisica-attitudinale, lo ha escluso essendo stati accertati a suo carico tratti di immaturità affettiva. Sostiene che si tratta al limite di lieve disturbo della personalità, non compreso fra le patologie che il bando elenca come fattori ostativi all'ammissione al concorso. Il Tribunale accoglie il ricorso. Afferma che, anche volendo ritenere il suddetto giudizio indicativo di un deficit psicologico o caratteriale, ancorché neppure classificabile come disturbo della personalità, nondimeno esso non rientra tra le vere e proprie patologie invalidanti, costituenti deficit della personalità, che il d.m. 30 giugno 2003, n. 198 considera invece ostativi per chi aspira ad entrare Corpo della Polizia di Stato. Di qui, ad avviso del Tribunale, l'errore nel quale è incorsa la
Commissione medica la quale, avendo ritenuto che le funzioni assegnate al vigile urbano sono assimilabili a quelle proprie degli agenti della Polizia di Stato, ha ritenuto, in contrasto con le precise indicazioni emergenti dal bando di concorso, di poter accertare l'idoneità dei candidati sottoposti al suo esame utilizzando i più severi criteri di giudizio normativamente imposti per l'accesso alla Polizia di Stato, con la conseguenza di sottoporre i candidati i concorrenti ad un esame psico-fisico-attitudinale più restrittivo, concludendo per l'inidoneità del ricorrente in ragione dell'accertata esistenza di deficit rilevanti per l'assunzione degli agenti della Polizia di Stato, in violazione e comunque in assenza di una disciplina specifica che tale tipo di accertamento legittimi nei concorsi per l'accesso alla polizia municipale.
 

 

 

 

CONCORSI A PUBBLICI IMPIEGHI   -   IMPIEGO PUBBLICO
T.A.R. Veneto Venezia Sez. II, Sent., 02-03-2010, n. 591

 

Svolgimento del processo

Il ricorrente ha partecipato al concorso pubblico per titoli ed esami per il conferimento di 30 posti di agente di polizia municipale del Comune di Verona, indetto con bando del 27 dicembre 2007.

Espletate positivamente le prove è stato sottoposto alla verifica del possesso dei requisiti di idoneità psico fisica attitudinale, conclusasi negativamente.

Con il presente ricorso egli impugna quindi gli atti in epigrafe e ne chiede l'annullamento per i seguenti motivi:

1) Violazione e falsa applicazione dell'art. 10 del Bando di concorso del 27 12 2007; dell'art. 41 bis e dell'All. A del Regolamento Speciale del Corpo di Polizia Municipale, eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà; difetto di motivazione e di istruttoria; illegittimità derivata.

Si sostiene che il bando di concorso elenca tutti i requisiti necessari per l'ammissione alla procedura selettiva in questione e che nessuno dei presunti deficit riscontrati nel ricorrente - consistente in tratti di immaturità affettiva di rigidità cognitiva - rientra tra le patologie ivi previste; che il ricorrente non solo non è affetto, quindi, da alcun disturbo mentale previsto al bando ma gode di un ottimo equilibrio psico fisico.

2) Violazione e falsa applicazione dell'art. 10 del Bando di concorso del 27 12 2007; dell'art. 41 bis e dell'All. A del Regolamento Speciale del Corpo di Polizia Municipale; degli art. 3 e seg.ti della legge 241/90; eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria; illegittimità propria e derivata.

Si sostiene che l'esclusione dal concorso del ricorrente è illegittima anche sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione, che il giudizio sull'accertamento dei requisiti fisici e psicoattitudinali è stato reso in maniera tale da impedire all'interessato in base a quali elementi, desunti da fatti o da comportamenti del ricorrente, sia stata operata la valutazione effettuata.

3) Violazione e falsa applicazione dell'art. 10 del Bando di concorso del 27 12 2007; dell'art. 41 bis e dell'All. A del Regolamento Speciale del Corpo di Polizia Municipale; degli art. 3 e seguenti della legge 241/90; eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria; illegittimità propria e derivata.

Si sostiene che anche laddove il giudizio della Commissione Medica, possa ritenersi motivato "per relationem" sulla scorta del richiamo incidentalmente operato al Regolamento Speciale del Corpo di Polizia Municipale del Comune di Verona, esso deve ritenersi illegittimo poiché non esiste alcun paragrafo 10 del suddetto regolamento né è possibile aliunde comprendere le ragioni del giudizio negativo reso sulla condizione psico fisica del ricorrente.

4) Violazione e falsa applicazione dell'art. 10 del Bando di concorso del 27 12 2007; dell'art. 41 bis e dell'All. A del Regolamento Speciale del Corpo di Polizia Municipale; eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, incongruenza ed illogicità; illegittimità propria e derivata.

Si sostiene che l'erroneità del giudizio formulato dalla Commissione medica si rivela ancora più chiaramente immotivato giacché il ricorrente, sottoposto ai medesimi test e al colloquio personale con altro professionista, è risultato essere perfettamente idoneo a. tutte quelle attività per le quali è imprescindibile un eccellente equilibrio psichico e fisico; che il candidato.è stato giudicato perfettamente in grado di poter ricoprire le mansioni per cui ha partecipato al concorso in quanto dotato di un ottimo equilibrio psichico.

5) Violazione e falsa applicazione dell'art. 10 del Bando di concorso del 27 12 2007; dell'art. 41 bis e dell'All. A del Regolamento Speciale del Corpo di Polizia Municipale; eccesso di potere per.incompetenza; eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria; illegittimità propria e derivata.

Si sostiene che la Commissione medica, per la formulazione del contestato giudizio negativo sul ricorrente, si.è avvalsa di una relazione psicologica, redatta all'esito del colloquio individuale con il candidato T., che oltre ad essere viziata per manifesta illogicità ed irragionevolezza, risulta essere stata resa da tale dott.ssa M.S. che non è un membro della Commissione nominata per il concorso in questione.

Si sono costituiti in giudizio il Comune di Verona e il Ministero dell'Interno.

Ambedue hanno contrastato i motivi di ricorso e ne hanno chiesto la reiezione con vittoria di spese.

Alla pubblica udienza del 18 dicembre 2009 il ricorso è stato posto in decisione.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

Con il primo motivo il ricorrente sostiene che il bando di concorso, nell'elencare i requisiti necessari per l'ammissione alla procedura selettiva in esame, al punto 10 ha espressamente specificato quali sono le imperfezioni e infermità psico fisiche che comportano l'esclusione dalla procedura concorsuale, individuandole nelle seguenti: disturbi mentali della personalità o comportamentali; malattie del sistema nervoso centrale o periferico e loro postumi invalidanti: disturbi apprezzabili della comunicazione (come la disartria e le alterazioni della fonazione); dipendenza da alcool, stupefacenti e sostanze psicotrope,- dismetabolismi di grave entità (ad esempio diabete/dislipidemie), che possono limitare l'impiego nelle mansioni; endocrinopatie di rilevanza funzionale (ad esempio ipertiroidismo) con potenziali alterazioni comportamentali e cardiovascolari, malattie sistemiche del connettivo (artrite reumatoide); patologie tumorali che causino limitazioni rilevanti,- patologie infettive che siano accompagnate da grave e persistente compromissione funzionale (come la tubercolosi con esiti invalidanti); alterazione della funzionalità e della dinamica respiratoria di marcata entità; patologie cardiovascolari e loro esiti, che causino limitazioni funzionali rilevanti; patologie e menomazioni dell'apparato muscolo -scheletrico e loro esiti, che causino limitazioni funzionali rilevanti".

Da ciò consegue, per il ricorrente, che i presunti deficit psico fisici e attitudinali riscontrati dalla commissione medica e sulla cui base è stato redatto il giudizio di inidoneità definito dalla formula "tratti di immaturità affettiva e di rigidità cognitiva" non rientrano in alcuna delle patologie sopraelencate che il bando di concorso qualifica come motivo di inidoneità e non giustificano, se non in quanto illegittimamente disposta, l'esclusione dal concorso del ricorrente.

Conclusione ulteriormente rafforzata dal fatto che anche volendo ritenere il suddetto giudizio indicativo di un deficit psicologico o caratteriale, classificabile come disturbo, più o meno grave, della personalità, nondimeno è certo, perchè riconosciuto dalla stessa amministrazione nelle proprie difese, che tale giudizio medico non rientra tra le vere e proprie patologie invalidanti, categoria nella quale sono compresi invece tutti i disturbi mentali della personalità e del comportamento elencati nel bando di concorso, ma tra i deficit della personalità che con rinvio al D.M. n. 198 del 30 giugno 2003 applicato agli agenti della Polizia di Stato, possono escludere l'idoneità psico fisica di chi aspira ad entrare in quel Corpo.

In altri termini, la Commissione medica, ritenuta l'assimilabilità delle funzioni tra gli agenti di polizia municipale e degli agenti della Polizia di Stato (nel presupposto che l'art. 5 della l.r. 65/1986 attribuisce agli agenti della polizia municipale funzioni di polizia giudiziaria, il servizio di polizia stradale e funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza) pur se il Bando di concorso ed il regolamento speciale del Corpo di polizia municipale non menziona né richiama quei requisiti, avrebbe nondimeno assoggettato i concorrenti ad un esame psico attitudinale più severo e restrittivo, concludendo per l'inidoneità del T. e di altri concorrenti in funzione dell'accertata esistenza di deficit rilevanti per l'assunzione degli agenti della Polizia di Stato, piuttosto che di agenti di polizia locale, in violazione e comunque in assenza di una disciplina specifica che tale tipo di accertamento legittimi.

Il motivo di ricorso è fondato.

Ritiene, infatti, il Collegio che la Commissione deputata all'accertamento dell'idoneità dei concorrenti al concorso in questione, diversamente da quanto ha fatto, non potesse giudicare inidoneo un candidato che, come il ricorrente, senza essere affetto da alcuna delle patologie elencate al paragrafo 10 del bando presentava una struttura di personalità con "tratti di immaturità affettiva e di rigidità cognitiva" definita "normale" ma con caratteristiche di variabilità rispetto alla totalità della popolazione generale e di quella specifica degli altri candidati al medesimo concorso, atteso che il deficit della personalità che è stato ritenuto ostativo dell'accesso per il T. e che è stato posto alla base del giudizio di esclusione dal concorso non è classificabile né è classificato tra le inidoneità che escludono l'accesso alla sottostante posizione di lavoro.

Infatti, come si sostiene nel primo motivo di ricorso, poiché i requisiti per l'ammissione al concorso, e tra essi quelli afferenti il possesso dell'idoneità psico fisica e attitudinale all'impiego nella polizia municipale, erano espressamente indicati nel bando di concorso, era sulla base di essi che la Commissione d'esame avrebbe dovuto stabilire l'idoneità dei concorrenti, non potendo la stessa integrare, nell'esercizio di un potere che compete esclusivamente all'amministrazione, la lex specialis concorsuale con altri criteri di idoneità applicabili a diverse categorie di personale, ancorchè ritenute equivalenti a quello oggetto del concorso (come nella specie il personale della Polizia di Stato).

E ciò perché siffatta assimilazione, quand'anche risultasse in astratto ragionevole e/o motivata esorbiterebbe dalle funzioni della Commissione giudicatrice posto che la scelta dei requisiti di idoneità per l'accesso all'impiego pubblico costituisce oggetto di riserva normativa (sia primaria che secondaria) e in quanto tale deve essere effettuata ed indicata dall'amministrazione nel bando di concorso, e applicata, in prosieguo, ai fini della selezione del personale, con modalità vincolate ed uniformi a tutti i concorrenti.

Ne consegue che nella specie, poiché il bando di concorso, che pure contiene altre norme integrative del Regolamento di polizia municipale non richiama né menziona il D.M. 30 giugno 2003 n. 198. (che vale per le forze di polizia dello Stato), ma unicamente le norme del regolamento municipale (riportate nel paragrafo 10 del bando di concorso) è sulla base esclusiva di tale disposizione che il requisito dell'idoneità psico fisica ed attitudinale avrebbe dovuto essere accertato dalla commissione medica.

Né infine è corretto affermare, come sostiene l'amministrazione che difende il giudizio della Commissione medica, che il richiamo ad una condizione di deficit psico attitudinale diversa da quelle indicate nel bando ben avrebbe potuto essere effettuato, nel singolo caso, in forza della natura non tassativa dell'elenco di cui al bando di concorso, (punto 10 dei requisiti di ammissione) per cui (anche) "le imperfezioni o infermità non specificate nel suddetto elenco ma che rendono palesemente il soggetto non idoneo a svolgere il servizio di polizia municipale senza limitazioni di impiego, sono considerate cause di esclusione".

Ritiene, invero, il Collegio di dover chiarire al riguardo che una cosa è l'integrazione delle fattispecie di imperfezioni o infermità assimilabili a quelle dell'allegato A, prevista dal bando, ed altra è la definizione di forme di inidoneità psico fisica di carattere escludente tali ritenute dalla commissione medica e dai suoi esperti che non rientrano assolutamente (come il deficit psicologico ed attitudinale attribuito al concorrente T.) tra "le patologie limitative delle capacità funzionali, tali, da rendere, il titolare palesemente inidoneo, per la loro stessa natura invalidante, a svolgere senza limitazioni i servizi di Polizia Municipale"

Peraltro, non solo il giudizio di non idoneità del ricorrente è privo, all'evidenza, dell'indicazione delle ragione di palese incapacità del ricorrente stesso a svolgere incondizionatamente le funzioni di guardia municipale (salvo un riferimento all'uso dell'arma di dotazione individuale, criticamente enunciato nella relazione sul ricorso prodotta dall'amministrazione dell'Interno) ma è talmente anodino nella sua stessa formulazione - da essere agevolmente contrastato da due perizie di parte che, in maniera altrettanto categorica, e sulla base di asseritamente analoghe tipologie di verifica (test ed analisi) attestano "l'assoluta normalità e la condizione di eccellente equilibrio psico fisico del ricorrente", nonché la sua strutturale compatibilità all'esercizio delle mansioni di agente della polizia municipale o di altre similari che implichino un adeguato livello di integrazione tra emozioni, cognizioni e comportamenti attivi.

Ne consegue, in conclusione, la fondatezza del primo motivo di ricorso e, in punto di insufficiente motivazione del giudizio stesso, del secondo.

Il ricorso va quindi accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.

Le spese e le competenze di causa seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.

il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, seconda Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e per l'effetto annulla il provvedimento impugnato.

Condanna il Comune di Verona al pagamento in favore della parte ricorrente, delle spese e delle competenze di causa, che liquida in Euro 2500,00 (duemila cinquecento euro/00 oltre ad iva e CPA.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2009 con l'intervento dei Magistrati:

Angelo De Zotti, Presidente, Estensore

Italo Franco, Consigliere

Brunella Bruno, Referendario

 
   

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