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Il provvedimento «collegato lavoro»: il tentativo (non più obbligatorio) di conciliazione e l'arbitrato secondo equità . A fronte di norme che trovano applicazione alla generalità dei lavoratori, la legge detta anche – perseguendo un disegno di riordino ed adeguamento delle relative discipline di settore – disposizioni specifiche nei confronti di alcune categorie di lavoratori, come quelli appartenenti alle Forze armate, alle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (artt. 19 e 27) e i medici del Servizio sanitario nazionale (art. 22).

DIRITTO DEL LAVORO

Il provvedimento «collegato lavoro»: il tentativo (non più obbligatorio) di conciliazione e l'arbitrato secondo equità (Prima parte)

Irene Ambrosi, Marta D'Auria

FONTE
Fam. Pers. Succ., 2011, 1
Lavoro

Sommario: 1. Premessa - 2. Il tentativo (non più obbligatorio) di conciliazione - 3. La risoluzione arbitrale delle controversie secondo equità

1. Premessa

Dopo una navetta piuttosto travagliata e dopo essere stato oggetto di rinvio da parte del Presidente della Repubblica(1), il Parlamento ha approvato il c.d. collegato lavoro: l. n. 183 del 2010(2).

Il testo del provvedimento si compone di cinquanta articoli, volti a modificare, integrare, abrogare norme in materia di lavoro, intervenendo su questioni centrali della relativa disciplina, come quelle relative alla conciliazione e all'arbitrato (art. 31), disposizioni al centro dell'attenzione, del dibattito politico e oggetto dello stesso rinvio presidenziale, che hanno modificato gli artt. 410, 411, 412, 412 ter, 412 quater e 420 c.p.c. e sulle quali si sofferma il presente commento.

Inoltre, sono previste tre deleghe per la revisione della disciplina in tema di lavori usuranti (art. 1), per la riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dal Ministero della salute (art. 2) e per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi (art. 23).

Infine, viene disposto il differimento dei termini per l'esercizio delle deleghe in materia di ammortizzatori sociali(3), di servizi per l'impiego, incentivi all'occupazione e apprendistato(4) e di occupazione femminile(5) (art. 46).

Da segnalare che la legge, nel perseguire la lotta contro il lavoro sommerso, dispone un inasprimento delle sanzioni a carico di datori di lavoro privati che si avvalgano di lavoratori irregolari (art. 4, 1° co.).

A fronte di norme che trovano applicazione alla generalità dei lavoratori, la legge detta anche – perseguendo un disegno di riordino ed adeguamento delle relative discipline di settore – disposizioni specifiche nei confronti di alcune categorie di lavoratori, come quelli appartenenti alle Forze armate, alle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (artt. 19 e 27) e i medici del Servizio sanitario nazionale (art. 22).

2. Il tentativo (non più obbligatorio) di conciliazione

Il tentativo di conciliazione è previsto e disciplinato dall'art. 410 c.p.c., che, inizialmente sostituito dalla l. n. 533/1973 (art. 1) e successivamente modificato dal d.lg. n. 80/1998 (art. 36) e dal d.lg. n. 387/1998 (art. 19), è stato oggetto di ulteriori modifiche ed integrazioni ad opera della legge in esame.

Le modifiche da ultimo apportate sono significative, in quanto all'obbligatorietà dell'esperimento del tentativo, introdotta dal d.lg. n. 80/1998, («chi intende proporre in giudizio una domanda … deve promuovere»), sostituiscono la sua facoltatività («può promuovere»). La stessa rubrica della norma testimonia il cambiamento: difatti, da «Tentativo obbligatorio di conciliazione» diventa «Tentativo di conciliazione». Pertanto, in mancanza di richiesta del tentativo di conciliazione, ciascuna delle parti è libera di adire direttamente l'autorità giudiziaria.

Viene previsto che tra i componenti delle commissioni di conciliazione – che continuano ad essere istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro – possa far parte, in qualità di presidente e al posto del direttore dell'ufficio o di un suo delegato, un magistrato collocato a riposo. Inoltre, per gli altri componenti, la rappresentatività delle organizzazioni sindacali, dei datori di lavoro e dei lavoratori, non è più misurata su base nazionale, bensì a livello territoriale(6).

Una volta scelta la via conciliativa, la legge di riforma introduce una serie di adempimenti da osservare; il 5° co. specifica le modalità di invio della richiesta del tentativo di conciliazione(7), mentre il 6° co. individua i contenuti necessari della richiesta tali da farla assomigliare ad una vera e propria domanda giudiziale(8). Ai sensi del 7° co., la controparte che intende accettare la procedura di conciliazione deve depositare, presso la commissione di conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Se ciò non avviene, ciascuna delle parti è libera di adire la via giudiziaria.

Entro i dieci giorni successivi al deposito della richiesta (il termine è rimasto immutato rispetto al precedente testo dell'art. 410, 3° co., c.p.c.), la commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione (detta previsione, seppur in forma diversa, e lo stesso termine erano contenuti anche nel precedente testo dell'art. 410 c.p.c., al 3° co.), che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni. Dinanzi alla commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. Infine, l'8° co. prevede che «la conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, anche in sede giudiziale ai sensi dell'art. 420, 1°, 2° e 3° co., non può dar luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo e colpa grave».

Va segnalata la novità, introdotta nella novella dell'art. 411 c.p.c. («Processo verbale di conciliazione»), costituita dall'obbligo della commissione di conciliazione, nel caso in cui le parti non raggiungano autonomamente un accordo, di formulare una proposta conciliativa. In particolare viene previsto che tale proposta deve essere riportata nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti in merito (art. 411, 2° co., c.p.c.). Tale aspetto assume un particolare rilievo poiché il giudice, in sede di giudizio, tiene conto sia della proposta formulata dalla commissione sia delle ragioni per le quali non sia stata accettata dalle parti, decidendo, soprattutto in merito alle spese di lite, di imputarle alla parte che ha rifiutato la proposta che si sia rivelata congrua.

Va evidenziato che il ricorso al tentativo «facoltativo» di conciliazione davanti alla Direzione provinciale del lavoro, così come ridisegnato, non pare destinato ad essere effettivamente utilizzato dalle parti, tenuto conto della complessità della procedura, dell'incertezza sugli esiti di un accordo autonomamente raggiunto e il concreto rischio che l'eventuale non accoglimento della proposta conciliativa venga poi valutato dal giudice.

A fronte della neo introdotta facoltatività del tentativo di conciliazione, la sua obbligatorietà continua a trovare applicazione per le controversie vertenti sui contratti certificati ai sensi del d.lg. n. 276/2003(9). Infatti, l'art. 31, 2° co., l. n. 183/2010 dispone che il tentativo di conciliazione previsto dall'art. 80 («Rimedi esperibili nei confronti della certificazione»), 4° co., d.lg. n. 276/2003, sia obbligatorio. In questi casi, il tentativo di conciliazione dovrà essere svolto ai sensi del novellato art. 410 c.p.c. preso la stessa sede che ha emanato il provvedimento di certificazione(10).

La riforma interessa anche la fase giudiziale, prevedendo che, nell'udienza fissata per la discussione della causa (art. 420 c.p.c.), il giudice interroghi liberamente le parti presenti, tenti la conciliazione della lite e (novità inedita) formuli alle parti una proposta transattiva. Inoltre, analogamente a quanto ora disposto dal nuovo art. 411, 2° co., c.p.c., costituisce «comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio» non solo, come già previsto, la mancata comparizione personale delle parti all'udienza, ma anche il rifiuto senza adeguata motivazione della proposta formulata dalla commissione, nonché il rifiuto non giustificato della proposta transattiva del giudice (art. 420, 1° co., c.p.c.).

Va evidenziato che sul punto la legge in esame si uniforma a quanto previsto dalla recente modifica degli artt. 91 e 92 c.p.c. (l. n. 69/2009) che consente al giudice, nel momento della decisione – allorquando non accolga la domanda in misura superiore alla proposta conciliativa – di condannare la parte vittoriosa a rifondere alla soccombente le spese di lite, per la quota eccessiva rispetto alla proposta stessa.

Vengono poi espressamente abrogati gli artt. 65 e 66 d.lg. n. 165/2001, sicché il tentativo (ora) facoltativo di conciliazione trova applicazione sia nel settore privato che in quello dei rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni.

3. La risoluzione arbitrale delle controversie secondo equità

Va premesso che sino alla entrata in vigore della legge in commento, nella materia del lavoro erano previste soltanto due ipotesi di arbitrato. Da un lato, quello «irrituale» cui accedevano liberamente le parti al termine del tentativo obbligatorio di conciliazione a condizione che fosse fallito il tentativo e che la possibilità di ricorrervi fosse prevista dai contratti collettivi; dall'altro, quello «rituale», a norma degli artt. 806 ss. c.p.c., e quindi sia nel caso che la controversia non fosse ancora insorta (clausola compromissoria) sia che fosse insorta (compromesso) a condizione che il contratto collettivo lo autorizzasse.

La riforma modifica anche la disciplina in materia di arbitrato, innovando gli artt. 412, 412 ter e 412 quater c.p.c. e prevedendo tre ipotesi diverse di arbitrato.

La prima ipotesi è disciplinata dall'art. 412 c.p.c. (ora rubricato «Risoluzione arbitrale della controversia») e prevede che le parti, in qualunque fase del tentativo di conciliazione o al suo termine in caso di mancata riuscita, possano affidare alla commissione di conciliazione stessa il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia (1° co.), indicando il termine (che non può superare i sessanta giorni dal conferimento del mandato) per l'emanazione del lodo, nonché le norme invocate a sostegno delle pretese delle parti e l'eventuale richiesta di decidere secondo equità nel rispetto dei «principi generali dell'ordinamento e dei principi regolatori della materia anche derivanti da obblighi comunitari» (2° co.). A differenza di quanto previsto dall'ordinamento previgente, le parti potranno affidare la risoluzione della controversia al collegio arbitrale anche in assenza dell'esplicita previsione di contratti o accordi collettivi. Per espressa previsione, si tratta di
una ipotesi di arbitrato irrituale.

Il 3° co. dell'articolo in esame dispone che il lodo emanato a conclusione dell'arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui agli artt. 1372 («Efficacia del contratto») e 2113, 4° co. (comma riformato dalla stessa legge di riforma).

Viene stabilito che il lodo è impugnabile ai sensi dell'art. 808 ter c.p.c.

Prima della riforma, la disciplina dell'impugnazione ed esecutività del lodo arbitrale era contenuta nell'art. 412 quater c.p.c.; dopo la riforma, la suddetta disciplina transita, interamente e con modifiche di carattere solo stilistico, nel novellato art. 412 c.p.c.

Una seconda ipotesi è prevista dall'art. 412 ter c.p.c. («Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva») che prevede la possibilità di devolvere la risoluzione di una controversia di lavoro ad un collegio arbitrale presso le sedi e secondo le modalità e nei casi previsti dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Infine, l'art. 412 quater c.p.c. («Altre modalità di conciliazione e arbitrato») introduce una terza ipotesi di arbitrato. Si prevede, in via residuale, che le parti possano sempre decidere di affidare la risoluzione della controversia ad un collegio arbitrale appositamente costituito. Anche in questo caso, si tratta di un'ipotesi di arbitrato «irrituale», possibile anche a prescindere dall'autorizzazione del contratto collettivo, con le particolarità sopra indicate in materia di impugnazione e di decisione secondo equità.

Resta salva la disciplina, non innovata dalla riforma, dell'arbitrato «rituale» (disciplinato dagli artt. 806 ss. c.p.c.) possibile solo se autorizzato dal contratto collettivo, vincolato a decisione secondo legge e contratto collettivo stesso e, con garanzia, posta dall'art. 829 c.p.c., di impugnare davanti al giudice il lodo arbitrale per violazione di legge e di contratto collettivo.

Ad una prima lettura, la inedita previsione della decisione arbitrale secondo equità appare costituire uno snodo davvero rilevante della riforma mediante cui il legislatore ha inteso svincolare la decisione arbitrale dalle regole di diritto e da quelle imposte dalla contrattazione collettiva, preferendo quelle della giustizia del caso concreto.

L'unico limite previsto, in verità piuttosto generico, è che la decisione secondo equità sia emessa dall'arbitro «nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento e dei principi regolatori della materia derivanti da obblighi comunitari» e soltanto con un'applicazione a regime potrà comprendersi il reale significato di tale formula attraverso i concreti orientamenti arbitrali adottati in merito(11).

Va, infine, richiamato quanto sottolineato dal Presidente della Repubblica, nel messaggio alle Camere, a proposito della possibilità (non più contemplata dalla riforma) di stipulare accordi preventivi (al momento della stipulazione del contratto) in ordine all'insorgenza di eventuali future liti (clausole compromissorie) riguardanti le controversie nei licenziamenti, Allora il Capo dello Stato affermava: «non può non destare serie perplessità la previsione del 9° co. dell'art. 31, secondo cui la decisione di devolvere ad arbitri la definizione di eventuali controversie può essere assunta non solo in costanza di rapporto allorché insorga la controversia, ma anche nel momento della stipulazione del contratto, attraverso l'inserimento di apposita clausola compromissoria: la fase della costituzione del rapporto è infatti il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro».

Infine, piuttosto ambigua è la previsione secondo cui se, per un verso, si ribadisce la funzione di controllo della clausola compromissoria da parte della contrattazione collettiva, per l'altro, si stabilisce che se la contrattazione non interviene in proposito entro un anno e mezzo dall'entrata in vigore della legge, l'apposizione di clausole compromissorie al contratto di lavoro verrà resa possibile da un decreto del Ministro del lavoro (art. 412 quater, 11° co.). Pertanto, a prescindere da quanto disposto dalla contrattazione collettiva, al lavoratore potrà essere richiesto di prestare il proprio consenso alla stipula di una clausola compromissoria nel caso in cui ritenga siano stati violati dei suoi diritti, rinunciando all'azione ordinaria giudiziale.
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(*) Ambrosi è l'autrice dei parr. 1 e 3; D'Auria è l'autrice del par. 2.

(1) Con messaggio del 31.3.2010 il Presidente della Repubblica ha rinviato il testo alle Camere, a norma dell'art. 74, 1° co., Cost., chiedendo un ulteriore approfondimento da parte delle Camere in considerazione della «particolare problematicità di alcune disposizioni che disciplinano temi di indubbia delicatezza sul piano sociale, attinenti alla tutela del diritto alla salute e di altri diritti dei lavoratori». Messaggio pubblicato integralmente in www.altalex.it.

(2) Il provvedimento nato come stralcio di un disegno di legge collegato alla legge finanziaria, è diventato l. 4.11.2010, n. 183, «Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro» ed è in vigore dal 24.11.2010.

(3) Art. 1, 28° co., l. n. 247/2007.

(4) Art. 1, 30° co., l. n. 247/2007.

(5) Art. 1, 81° co., l. n. 247/2007.

(6) «Ne consegue, in virtù dell'entrata in vigore della l. n. 183 del 2010, che si dovrà procedere alla costituzione delle nuove Commissioni e sottocommissioni e che quelle esistenti secondo la vecchia composizione potranno operare in regime di prorogatio»: ministero del lavoro e delle politiche sociali, segretariato generale, «Art. 31, l. 4 novembre 2010, n. 183. Conciliazione presso le Direzioni provinciali del lavoro. Prime istruzioni nella fase transitoria», prot. 0003428, 25.11.2010.

(7) «La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall'istante, è consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta del tentativo di conciliazione deve essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno a cura della stessa parte istante alla controparte».

(8) «La richiesta deve precisare: 1) nome, cognome e residenza dell'istante e del convenuto; se l'istante o il convenuto sono una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, l'istanza deve indicare la denominazione o la ditta nonché la sede; 2) il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l'azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto; 3) il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura; 4) l'esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa».

(9) D.lg. 10.9.2003, n. 276, «Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla l. 14.2.2003, n. 30».

(10) «Si deve ricordare, a tale riguardo, come, in questi casi, il tentativo sia obbligatorio non solo nei confronti delle parti che hanno sottoscritto il contratto certificato, ma anche – in ragione della efficacia giuridica della certificazione ai sensi dell'art. 79, d.lg. n. 276/2003 – nei confronti dei terzi interessati (ad esempio gli enti amministrativi) che intendano agire in giudizio contro l'atto di certificazione»: ministero del lavoro e delle politiche sociali, cit.

(11) Nel messaggio del Capo dello Stato sull'originario testo che prevedeva la decisione secondo equità nel rispetto dei «principi generali dell'ordinamento», si evidenziava come con tale giudizio in deroga alle disposizioni di legge: «si incide sulla stessa disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, rendendola estremamente flessibile anche al livello del rapporto individuale. Né può costituire garanzia sufficiente il generico richiamo del rispetto dei principi generali dell'ordinamento, che non appare come tale idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di diritti indisponibili, al di là di quelli costituzionalmente garantiti; e comunque un aspetto così delicato non può essere affidato a contrastanti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, suscettibili di alimentare contenziosi che la legge si propone inoltre di evitare. Perplessità ulteriori suscita la estensione della possibilità di ricorrere a tale tipo di arbitrato anche in materia di pubblico impiego: in tal
caso è particolarmente evidente la necessità di chiarire se ed a quali norme si possa derogare senza ledere i princìpi di buon andamento, trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa sanciti dall'art. 97 della Costituzione».
 

   

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