Permessi sindacali permanenti: esclusa la progressione di carriera per il lavoratore

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Creato Domenica, 26 Settembre 2010 14:02
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Permessi sindacali permanenti: esclusa la progressione di carriera per il lavoratore

Cassazione civile - Sentenza 7 maggio 2010, n. 11146.

Il permesso sindacale permanente blocca la progressione di carriera del lavoratore.

Questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 7 maggio 2010, n. 11146, con la quale è stato sostenuto che il permesso sindacale non può essere equiparato all'aspettativa sindacale dal momento che, a differenza di quest'ultima, è regolarmente retribuito. La legge, prosegue la Corte, non prevede una equivalenza automatica per ogni tipo di assenza dal lavoro per motivi sindacali, con la conseguenza che è perfettamente legittimo un regime differenziato per ciascun caso.

Viene, dunque, sancita l'inapplicabilità dell'art. 31 dello Statuto dei Lavoratori (rubricato, "aspettativa dei lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali") alla fattispecie dei permessi di cui all'art. 30 della medesima legge, in quanto, in quest'ultimo caso, l'intento delle parti negoziali è unicamente quello di tutelare il diritto del lavoratore al mantenimento della retribuzione.

La vicenda processuale trae origine dal caso di un conducente di linea che conveniva in giudizio l'azienda di mobilità presso la quale lavorava per ottenere la ricostruzione della carriera, con inquadramento in un livello superiore e con pagamento delle differenze retributive.

Sosteneva, in proposito, il lavoratore di essere stato in permesso sindacale retribuito e continuo per quasi dieci anni, in quanto distaccato presso la segreteria provinciale del sindacato di settore e di aver comunque diritto all'avanzamento di carriera.

In primo grado, il Tribunale accoglieva la domanda, ma in appello la decisione veniva riformata integralmente.

In particolare, secondo la Corte di merito, il lavoratore non aveva usufruito di un'aspettativa sindacale, che gli dava diritto alla ricostruzione della carriera, ma, a seguito della sottoscrizione di un accordo con la società, aveva goduto di permessi sindacali permanenti, che avevano dato luogo ad una posizione di distacco giornaliero costante.

Si trattava, in sostanza, di un trattamento di maggior favore, che aveva consentito al dipendente di mantenere il proprio trattamento economico, pur non avendo diritto, in base al contratto collettivo, all'aspettativa retribuita.

Il lavoratore, quindi, proponeva ricorso per Cassazione, denunciando la violazione e falsa applicazione di norme di legge e di contratto.

La questione principale verte sulla qualificazione dell'assenza.

Secondo il ricorrente, il distacco presso la segreteria provinciale deve essere configurato come aspettativa sindacale e non come permesso sindacale permanente.

La conclusione a cui giunge si basa su due elementi.

Gli artt. 24 e 31, all. A, R.D. n. 148 del 1931 (recante la disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) stabiliscono che ricorre l'aspettativa sindacale ogniqualvolta vi sia un'esenzione dal servizio, anche temporanea, del dipendente.

Gli artt. 23, 24, 30 e 31 della L. n. 300 del 1970 prevedono che i permessi - retribuiti o meno - sono quelli concessi occasionalmente, e quindi con sporadicità ed eccezionalità, mentre ogni altra assenza permanente e duratura dal lavoro - anche se temporalmente limitata - per ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali deve intendersi come aspettativa.

Il ricorrente, poi, esclude di aver ricevuto un trattamento migliorativo, in quanto, contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza impugnata, non erano intervenuti accordi individuali e, comunque, la configurazione dell'assenza come "permesso", anziché come aspettativa, risaliva ad una nota aziendale, e dunque ad un mero atto unilaterale inefficace nei suoi confronti.

La Cassazione respinge la domanda, ritenendola infondata.

Innanzitutto, la Corte chiarisce che la pretesa del ricorrente si fonda sull'applicazione dell'art. 28 del contratto collettivo degli autoferrotranvieri del 23 luglio 1976, che ha previsto la ricostruzione della carriera per gli agenti che rientrino in servizio dall'aspettativa sindacale.

Sulla scorta di tale previsione, la sentenza impugnata ha escluso, nella specie, la configurazione di tale diritto, avendo accertato la sussistenza di un accordo fra le parti che qualificava l'allontanamento del lavoratore, per lo svolgimento di attività sindacale di livello provinciale, non come aspettativa, ma come permesso sindacale retribuito, inteso a consentire il mantenimento della retribuzione.

Conseguentemente, l'avanzamento di carriera, proseguono i Giudici, dipendeva o dalla volontà delle parti, le quali avrebbero dovuto intendere l'assenza come aspettativa sindacale, o dalla ineludibilità normativa di tale definizione.

Nella specie, non si è verificata alcuna di queste condizioni.

Relativamente alla prima, la Corte di merito ha accertato la volontà delle parti di configurare l'assenza come permesso.

Depongono in tal senso, secondo la ricostruzione operata dai Giudici del merito, la definizione formale e la sussistenza di un accordo individuale tra datore di lavoro e dipendente.

In particolare, l'azienda ha emanato una nota con la quale è stato chiarito che gli agenti, distaccati, in via continuativa, presso la segreteria provinciale del sindacato avrebbero usufruito esclusivamente di permessi sindacali.

Al riguardo, il lavoratore non ha mosso delle censure idonee, limitandosi a sostenere che non vi fosse un accordo in merito alla qualificazione giuridica dell'assenza e non ha fornito alcuna prova di un suo dissenso effettivo.

Le parti, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, hanno voluto dar luogo ad una fattispecie particolare di distacco.

In assenza dei presupposti contrattuali per porre il lavoratore in aspettativa sindacale retribuita, l'azienda ha concesso - eccezionalmente - un permesso sindacale permanente retribuito.

La ratio di questa concessione deve essere individuata nella volontà di garantire al dipendente il trattamento economico in godimento: ciò, tuttavia, non può essere ritenuto sufficiente a qualificare l'assenza come aspettativa.

Con riferimento all'altra condizione, la Cassazione precisa che l'inefficacia della qualificazione formale non può conseguire neanche all'ipotizzata violazione di norme inderogabili.

In primo luogo, la normativa generale contenuta nel R.D. n. 148 del 1931, all. A, agli artt. 24 e 31, non configura un'equivalenza imprescindibile ed automatica fra ogni allontanamento dal lavoro per motivi sindacali e l'aspettativa.

Un siffatto automatismo, poi, non può ricollegarsi al grado di continuità dell'assenza dal lavoro, nel senso che la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato come la quantificazione delle assenze sia ininfluente ai fini della fruizione dei permessi e l'assenza può anche essere prolungata nel tempo (Cass. n. 12105 del 2004; n. 454 del 2003).

E' stato chiarito, inoltre, che le parti possono concludere accordi che riconoscano in modo generico il diritto ai permessi, salvo il potere del datore di lavoro di effettuare controlli sulla effettiva partecipazione alle singole riunioni sindacali (Cass. n. 11759 del 2003).

La Corte, quindi, conclude nel senso di ritenere che non vi siano margini per riconoscere l'avanzamento di carriera, in quanto - aderendo alle conclusioni dei Giudici di merito - l'assenza è inquadrabile nella categoria dei "permessi sindacali".

Viene, così, respinta la domanda del ricorrente.

Dunque, con la decisione in esame, di cui non constano allo stato precedenti giurisprudenziali in termini specifici, la Cassazione si è pronunciata sulla efficacia dei permessi sindacali ai fini della progressione di carriera, concludendo per la soluzione negativa.

Tra le decisioni richiamate dalla Corte, si segnala la n. 12105 del 2004 che ha statuito sulla irrilevanza della durata dell'assenza ai fini della qualificazione della stessa.

In proposito, è stato affermato che "l'esercizio del diritto a permessi retribuiti, previsto dall'art. 30 della L. n. 300 del 1970 in favore dei componenti degli organi direttivi (provinciali e nazionali) delle associazioni sindacali, non è escluso, atteso il carattere precettivo (e non solo programmatico) della disposizione, dalla mancanza di disposizioni contrattuali collettive in tema di quantificazione delle assenze, ma va in tale caso regolato o con accordi individuali oppure, secondo i principi generali (art. 1374 cod. civ.), dal giudice in conformità agli usi o all'equità, nel rispetto dell'obbligo reciproco di correttezza delle parti (art. 1175 cod. civ.), rapportato alle finalità della norma, e con eventuale riferimento orientativo a discipline contrattuali anche precedenti, ovvero non regolanti il caso o il settore specifico ma concernenti situazioni analoghe, nonché con riguardo a quanto la stessa L. n. 300 del 1970, con gli articoli 23 e 24, stabilisce in via minimale per i dirigenti delle rappresentanze sindacali".

Particolarmente interessante, sullo stesso tema, è anche la pronuncia della Suprema Corte n. 454 del 2003: "Il diritto ai permessi sindacali è pieno ed incondizionato, non essendo configurabile alcun potere discrezionale di concessione o autorizzazione da parte del datore di lavoro, ed anche quando (come nel caso di specie) sia fissato un "monte ore", il lavoratore può far uso dei permessi per un periodo prolungato ed ininterrotto, senza neppure essere tenuto a far sì che la propria, benché limitata, prestazione lavorativa, conservi una sua utilità nell'ambito del rapporto contrattuale; tuttavia, non è consentito l'utilizzo dei permessi sindacali per fini personali o diversi da quelli per i quali essi vengono attribuiti, né tanto meno è consentita la strumentalizzazione del potere di fruire dei permessi per una finalità diversa dalla tutela sindacale (consistente, nel caso di specie, nella semplice volontà di sottrarsi all'attività lavorativa, praticando un dissimulato ostruzionismo alle direttive del datore di lavoro)".