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Per la Corte Costituzionale il blocco delle progressioni di carriera e dei meccanismi di adeguamento retributivo dei dipendenti pubblici é legittimo

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Corte Cost., 12 dicembre 2013, n. 304



SENTENZA N. 304

ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Gaetano SILVESTRI Presidente

- Luigi MAZZELLA Giudice

- Sabino CASSESE ”

- Giuseppe TESAURO ”

- Paolo Maria NAPOLITANO ”

- Giuseppe FRIGO ”

- Alessandro CRISCUOLO ”

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Sergio MATTARELLA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del

decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione

finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,

comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo

regionale del Lazio con un’ordinanza del 19 giugno, quattro ordinanze del 6 luglio e

una ordinanza del 3 luglio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 218, 219, 243, 244, 245

e 246 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della

Repubblica nn. 41 e 44, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti gli atti di costituzione di A. A. ed altri, di M. L. C. ed altro e di S. D. B. ,

nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 novembre 2013 e nella camera di consiglio del

2

6 novembre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi gli avvocati Monica Scongiaforno per A. A. ed altri, Ugo Sgueglia per M.

L. C. ed altro e per S. D. B. e l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il

Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.− Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con sei ordinanze di

identico tenore (reg. ord. nn. 218, 219, 243, 244, 245 e 246 del 2012) ha sollevato, in

riferimento agli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità

costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010,

n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività

economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio

2010, n. 122.

1.1.− I giudizi a quibus hanno tutti ad oggetto ricorsi avverso provvedimenti di

nomina di personale della carriera diplomatica nei quali è specificato che il

provvedimento, ai sensi della norma impugnata, ha effetto a fini esclusivamente

giuridici. I provvedimenti impugnati, infatti, sono attuativi del terzo periodo del

comma 21 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010; comma che si riporta integralmente: «I

meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui

all’articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, così come previsti

dall’articolo 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli anni

2011, 2012 e 2013 ancorché a titolo di acconto, e non danno comunque luogo a

successivi recuperi. Per le categorie di personale di cui all’articolo 3 del decreto

legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un

meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non

sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai

rispettivi ordinamenti. Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30

marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque

denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i

predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. Per il personale contrattualizzato le

progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente

disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini

esclusivamente giuridici».

I giudizi a quibus si differenziano perché in uno il ricorso si riferisce alla

nomina a consigliere di ambasciata (ordinanza n. 218), in altri i ricorsi traggono

3

origine dalla nomina a ministro plenipotenziario (ordinanze nn. 219, 243, 244, 245), e

infine, nell’ultimo, dalla nomina ad ambasciatore (ordinanza n. 246).

Il rimettente, con riferimento alle nomine a ministro plenipotenziario e ad

ambasciatore ritiene infondata la tesi dei ricorrenti secondo la quale tali nomine non

costituirebbero una progressione di carriera, ma un vero e proprio cambiamento di

status, restando, pertanto, estranee alla regolazione discendente dal citato art. 9,

comma 21, che presuppone, invece, proprio la progressione di carriera.

Il Tar del Lazio ritiene che, nell’ambito dell’unicità del ruolo prevista dall’art.

101 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento

dell’Amministrazione degli affari esteri), il passaggio tra i predetti gradi realizzi un

vero e proprio sviluppo della carriera, rendendo irrilevante la circostanza, segnalata

dai ricorrenti, che le successive disposizioni prevedano l’accesso ai primi tre gradi

mediante «promozione» (artt. 103, 107, 108) e l’accesso ai due gradi apicali per

«nomina» (artt. 109 e 109-bis), in quanto tali modalità riflettono esclusivamente

l’esistenza di un diverso rapporto fiduciario con l’istituzione di appartenenza tra il

promosso ed il nominato. Osserva, poi, che in ogni caso l’art. 9, comma 21, terzo

periodo, del d.l. n. 78 del 2010, con la locuzione «progressioni di carriera comunque

denominate», fa riferimento a qualsiasi tipo di avanzamento di carriera

ricomprendendo anche quelle che presuppongono l’esercizio di una elevata

discrezionalità nella scelta tra i candidati provenienti dai gradi inferiori.

Il rimettente ritiene infondata anche la tesi avanzata nei ricorsi secondo la quale

la disposizione impugnata, quale norma di carattere generale, non possa derogare,

modificandola, alla disciplina speciale che regola il trattamento economico dei

diplomatici, di cui agli artt. 101 e 112 del predetto d.P.R. n. 18 del 1967 ed all’art. 1 e

seguenti del d.P.R. 13 agosto 2010, n. 206 (Recepimento dell’accordo sindacale per il

personale della carriera diplomatica, relativamente al servizio prestato in Italia –

Biennio giuridico ed economico 2008-2009).

Nei ricorsi, infatti, si evidenzia, in particolare, che il personale appartenente alla

carriera diplomatica è retto dal proprio specifico ordinamento, regolato dal d.P.R. n.

18 del 1967, il cui art. 112 − siccome sostituito dall’art. 14 del d.lgs. 24 marzo 2000,

n. 85 (Riordino della carriera diplomatica, a norma dell’articolo 1 della legge 28 luglio

1999, n. 266) − ha introdotto il sistema della contrattazione, da trasfondere

successivamente in un atto regolamentare, emanato sotto forma di decreto del

Presidente della Repubblica. Attualmente, l’atto di recepimento è rappresentato dal

4

citato d.P.R. n. 206 del 2010, successivo allo stesso d.l. n. 78 del 2010, che, recependo

l’ipotesi di accordo, ne ha espressamente decretato l’applicazione al personale

appartenente alla carriera diplomatica. Pertanto, l’art. 112 del d.P.R. 18 del 1967

assegnerebbe al d.P.R n. 206 del 2010 la funzione di atto regolamentare speciale, che

non può essere eterointegrato da prescrizioni pur contenute in una fonte di grado

superiore, ma di carattere generale.

Anche tale percorso argomentativo viene confutato dal rimettente, sempre al fine

di motivare la rilevanza delle questioni di costituzionalità sollevate. Afferma, infatti,

che la delegificazione di una materia, effettuata mediante un atto avente forza e valore

di legge, non esclude che altre norme dello stesso grado possano integrare, con

previsioni generali o speciali, la disciplina della materia delegificata: in altre parole, la

delegificazione comporta che la materia trovi la sua disciplina ordinaria in una fonte

inferiore, non che questa sia l’unica fonte costituzionalmente legittima per la

disciplina della materia stessa.

Nel caso di specie, l’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, per il tenore delle prescrizioni

in esso contenute, e per la finalità che esso persegue − e, dunque, per la lettera e la

ratio delle stesse − si prefigge lo scopo di intervenire su tutti i rapporti d’impiego con

le pubbliche amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte principale che li

disciplina. Tanto che lo stesso comma 21 dispone che le progressioni di carriera,

comunque denominate, ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni

2011, 2012 e 2013 abbiano effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici

non solo per il personale pubblico non contrattualizzato di cui all’articolo 3 del

decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (in cui rientra il personale della carriera

diplomatica), ma anche per il personale contrattualizzato.

Il Tar del Lazio ritiene, pertanto, estremamente chiara la volontà del legislatore

di escludere, per il periodo in oggetto, efficacia economica a qualsiasi progressione di

carriera, a prescindere dalla fonte che regola direttamente o indirettamente il rapporto

stesso.

Per questi motivi, secondo il rimettente, acquista rilevanza, ai fini della

decisione, la questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l.

n. 78 del 2010.

Nel motivare la non manifesta infondatezza, il rimettente premette che il

concreto effetto della disposizione in questione, secondo cui «le progressioni di

carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013

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hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici», è quello della

corresponsione al dipendente, per il triennio in questione, non delle somme

corrispondenti agli emolumenti, al netto d’imposta, stabiliti per la posizione attuale,

ma degli importi corrispondenti alla precedente qualifica di appartenenza, da cui il

dipendente è cessato. In altri termini, per effetto della disposizione de qua, il

dipendente, pur svolgendo un lavoro presuntivamente di maggiore complessità ed

impegno, continua a percepire un corrispettivo equivalente al precedente trattamento

economico, che si deve presumere adeguato invece ad una prestazione meno onerosa.

Secondo il rimettente, sussistono distinti profili di illegittimità costituzionale,

non confliggenti, ma subordinati tra loro, nel rispetto, quindi, del principio, affermato

dalla Corte costituzionale, che considera inammissibili le questioni di costituzionalità,

della stessa disposizione di legge, poste tra loro in forma alternativa ed incompatibile.

L’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte d’interesse,

determinerebbe anzitutto, in violazione dell’art. 2 (recte: 3) Cost., un’irragionevole

disparità di trattamento all’interno del personale della carriera diplomatica.

Infatti, a parità di qualifica e con mansioni conseguentemente corrispondenti −

con incarichi complessi e responsabilità di uffici apicali − tali dipendenti percepiscono

o no lo stesso trattamento economico (a prescindere dalle maggiorazioni per la diversa

anzianità nella qualifica stessa), in relazione ad un elemento del tutto aleatorio,

costituito dall’anno in cui la qualifica è stata ad essi attribuita; situazione che non ha

evidentemente relazione alcuna con il lavoro prestato.

Inoltre, risulterebbe violato anche l’art. 36 Cost., in quanto il lavoratore ha

diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro (dato

che si deve presumere che tale sia la retribuzione tabellare stabilita in conseguenza di

una specifica trattativa con la parte datoriale pubblica, poi recepita nel decreto

presidenziale più volte richiamato). Tale adeguata retribuzione, che continua ad essere

corrisposta a coloro che sono stati promossi prima del 2011, è invece negata ai

ricorrenti, oltretutto per un lungo intervallo di tempo, corrispondente ad oltre trentasei

mensilità.

L’obiettivo perseguito dal legislatore con la disposizione impugnata sarebbe,

secondo il Tar del Lazio, quello della riduzione del passivo del bilancio statale, ma

tale obiettivo dovrebbe comunque armonizzarsi, secondo proporzionalità e

ragionevolezza e nel rispetto dei principi di eguaglianza formale e sostanziale di cui

agli artt. 2 e 3 Cost. con gli altri valori tutelati dalla Costituzione, tra cui appunto

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quelli definiti dall’art. 36 Cost.. Tale evenienza non si verificherebbe, invece, nella

specie, in quanto «l’eliminazione del miglior trattamento economico, riferibile alla

nuova posizione acquisita, contrast[erebbe] con il principio di proporzionalità, che il

legislatore, pur nella sua discrezionalità, è tenuto a rispettare».

Per altro verso, poi, la differenziazione del trattamento economico tra colleghi,

non in ragione delle mansioni e delle conseguenti responsabilità, ma in relazione ad

un elemento casuale come il momento in cui la qualifica è stata conferita,

interferirebbe negativamente sui rapporti tra i colleghi stessi, alcuni dei quali

ingiustamente discriminati, e ciò si riverbererebbe sull’organizzazione degli uffici,

incidendo negativamente sul loro buon andamento, in violazione dell’art. 97 Cost.

Sotto un diverso profilo, ed in subordine rispetto alle censure precedentemente

dedotte, l’art. 9, comma 21, sebbene letteralmente prescriva di non accrescere il

trattamento economico dovuto a determinate categorie di pubblici dipendenti, con un

conseguente risparmio di spesa per l’Erario, sotto un profilo sostanziale e degli effetti,

imporrebbe a quegli stessi dipendenti una prestazione patrimoniale costituita dalla

trattenuta da parte dello Stato di una parte dei compensi maturati con la promozione.

L’art. 9, comma 21, terzo periodo, imponendo agli interessati un peculiare concorso

alle spese pubbliche, istituirebbe un tributo anomalo, in contrasto con i principi

costituzionali in materia, quali quelli stabiliti dagli artt. 2, 3 e 53 Cost. Sarebbe, in tal

modo, violato il principio di capacità contributiva, poichè il sacrificio sarebbe

richiesto non in relazione ad uno specifico indice di ricchezza, ma al dato,

economicamente insignificante, del momento in cui la qualifica è stata acquisita e

senza alcuna considerazione del principio di progressività. Il Tar aggiunge che, in

evidente violazione dei principi costituzionali prima richiamati, il tributo colpirebbe

solo una parte dei dipendenti che hanno raggiunto una determinata qualifica e,

comunque, soltanto i redditi dei pubblici dipendenti, senza invece gravare, a parità di

capacità contributiva, su analoghe categorie di lavoratori, o di redditi.

Poiché un limite espresso all’azione impositiva, invece, è quello per cui a

situazioni uguali devono corrispondere tributi uguali, ne consegue che sarebbe

arbitrario ed irragionevole un sacrificio patrimoniale il quale incida soltanto sulla

condizione e sul patrimonio di una determinata categoria di pubblici impiegati,

lasciando altre categorie di lavoratori (essenzialmente e segnatamente autonomi)

indenni, o, comunque, colpendoli più leggermente, a parità di capacità reddituale, in

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violazione del principio di uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost. e del principio

solidaristico di cui all’art. 2 Cost.

2.− È intervenuto nei giudizi di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei

ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la

questione sia dichiarata non fondata.

L’Avvocatura dello Stato, innanzi tutto, esclude che la disposizione censurata

violi gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto la Corte costituzionale ha già avuto occasione di

affermare che misure di «blocco» dello stipendio adottate in un momento delicato

della vita nazionale e segnate dalla finalità di realizzare, con immediatezza, un

contenimento della spesa pubblica rispetto degli obiettivi fondamentali di politica

economica e dei vincoli derivanti dal processo di integrazione europea possono

ritenersi non lesive del principio di cui all’articolo 3 Cost. − sotto il duplice aspetto

della non contrarietà al principio di uguaglianza sostanziale e di irragionevolezza − a

condizione che siano eccezionali, transeunti, non arbitrarie e consentanee allo scopo

prefissato (sentenze n. 245 del l997, n. 417 del 1996, n. 99 del 1995 e n. 6 del 1994;

ordinanza n. 299 del 1999).

Il «blocco» introdotto dalla norma impugnata presenterebbe, all’evidenza,

carattere provvedimentale, risultando disposto per un periodo contenuto nei limiti

temporali dell’intervento emergenziale stabilito dal legislatore (e cioè per gli anni dal

2011 al 2013), al fine di impedire erogazioni per esigenze di riequilibrio di bilancio, e

renderebbe, perciò, irrilevante, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, la

diseguaglianza casuale collegata al momento di maturazione delle progressioni.

Quanto, invece, alla violazione degli articoli 2, 36 e 97 Cost., la parte resistente

osserva che l’ordinanza di rimessione non contiene riferimenti utili a stabilire se la

progressione di carriera comporti necessariamente lo svolgimento di incarichi

«superiori», diversi e più onerosi di quelli svolti in precedenza, né se ciò sia avvenuto

con riguardo ai ricorrenti.

La questione, dunque, prima ancora che infondata, risulterebbe irrilevante.

Con riguardo alla violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost., l’Avvocatura dello Stato

rileva che, nel caso in esame, la norma censurata non prevede una decurtazione di una

componente retributiva già dovuta e in godimento, parificabile ad un prelievo

tributario, bensì opera un differimento del momento di maturazione di tale

componente, che vale anche a fini contributivi.

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Si tratterebbe, in altri termini, di un mero «blocco» stipendiale che deve essere

considerato legittimo. Il differimento, peraltro, concerne tanto il personale non

contrattualizzato di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001 quanto il personale

contrattualizzato, sì che va escluso in radice qualunque profilo di disparità di

trattamento nell’ambito del settore omogeneo e confrontabile dei lavoratori che

prestano la loro attività alle dipendenze della pubblica amministrazione.

3.− Con riferimento all’ordinanza n. 218 del 2012, si sono costituiti i ricorrenti

del giudizio a quo, chiedendo che la Corte, in accoglimento delle questioni sollevate

dal Tar del Lazio, dichiari l’illegittimità costituzionale del terzo periodo del comma 21

dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010.

4.− Con riferimento alle ordinanze n. 245 e n. 246 del 2012, si sono costituiti i

ricorrenti dei giudizi a quibus, eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità delle

questioni sollevate e, in subordine, chiedendone l’accoglimento.

Secondo tali parti private, infatti, la norma censurata dal Tar del Lazio non

dovrebbe applicarsi, in quanto le nomine nel grado, rispettivamente, di ministro

plenipotenziario e di ambasciatore non costituiscono una progressione di carriera, ma

un cambiamento di status.

Infatti, la carriera diplomatica retta dall’unitarietà del ruolo prevede i gradi di:

segretario di legazione, consigliere di legazione, consigliere d’Ambasciata, ministro

plenipotenziario e ambasciatore, ma solo per i primi tre gradi sarebbe prevista una

normale progressione di carriera mediante una specifica procedura di promozione,

mentre ai successivi due gradi si accederebbe solo mediante una nomina con decreto

del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri.

Sarebbe dunque errata la tesi del rimettente che, in punto di rilevanza, ha

ritenuto non fondato il motivo di ricorso attinente a questi profili, con conseguente

inammissibilità delle questioni sollevate.

Un ulteriore profilo di inammissibilità deriverebbe dall’applicazione del criterio

di specialità, in quanto al personale della carriera diplomatica non si applicherebbe la

disciplina del d.l. n. 78 del 2010, ma quella specifica di cui al d.P.R. n. 206 del 2010.

In subordine, le parti private chiedono l’accoglimento delle questioni sollevate

dal Tar del Lazio con argomentazioni analoghe a quelle delle ordinanze di rimessione.

5.− Con memorie depositate in prossimità dell’udienza, l’Avvocatura dello Stato

insiste nelle proprie richieste, ribadendo le proprie argomentazioni in ordine

all’infondatezza delle questioni sollevate.

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6.− Con memorie depositate in prossimità dell’udienza, le parti private insistono

nelle richieste formulate negli atti di costituzione.

Considerato in diritto

1.− Con sei ordinanze di identico tenore (reg. ord. nn. 218, 219, 243, 244, 245 e

246 del 2012) il Tribunale amministrativo del Lazio ha sollevato questioni di

legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31

maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di

competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della

legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della

Costituzione.

1.1.− In considerazione dell’identità delle questioni, deve essere disposta la

riunione dei giudizi, al fine di definirli con un’unica pronuncia.

1.2.− Secondo il rimettente, la norma censurata, nella parte in cui dispone che

«Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e

successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate

eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni,

ai fini esclusivamente giuridici», determinerebbe, in violazione dell’art. 3 Cost.,

un’irragionevole disparità di trattamento all’interno del personale della carriera

diplomatica, in quanto, a parità di qualifica e con mansioni conseguentemente

corrispondenti, tali dipendenti percepirebbero un diverso trattamento economico, in

relazione ad un elemento del tutto aleatorio costituito dall’anno in cui la qualifica è

stata ad essi attribuita.

La norma indicata, inoltre, violerebbe l’art. 36 Cost., ledendo il diritto del

lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato

(dato che si deve presumere che il rispetto di questo precetto costituzionale sia stato

alla base della determinazione della retribuzione tabellare delle varie qualifiche),

nonché gli artt. 2, 3 e 36 Cost., in quanto la riduzione del passivo del bilancio statale

si deve comunque armonizzare, secondo proporzionalità e ragionevolezza, oltre che

con i principi di eguaglianza formale e sostanziale, con gli altri valori tutelati dalla

Costituzione, tra cui appunto quelli definiti dall’art. 36 Cost.

Risulterebbe violato anche l’art. 97 Cost., perché la differenziazione del

trattamento economico non per le mansioni espletate ma in relazione ad un elemento

casuale come il momento in cui la qualifica è stata conferita, interferirebbe

negativamente sui rapporti tra i colleghi stessi, alcuni dei quali ingiustamente

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discriminati, determinando un effetto negativo sull’organizzazione degli uffici e sul

loro buon andamento.

In via subordinata, il Tar del Lazio ritiene che il terzo periodo dell’art. 9, comma

21, violi anche gli artt. 2, 3 e 53 Cost. in quanto, trattenendo una parte dei compensi

maturati con la promozione, imporrebbe ai dipendenti una prestazione patrimoniale in

violazione del principio di capacità contributiva e senza alcuna considerazione del

principio di progressività.

Il sacrificio patrimoniale imposto verrebbe in tal modo ad acquisire la veste di

«tributo anomalo» che, incidendo soltanto sulla condizione e sul patrimonio di una

determinata categoria di pubblici impiegati, lasciando altre categorie di lavoratori

indenni, o, comunque, colpendoli più leggermente a parità di capacità reddituale,

sarebbe arbitrario ed irragionevole e violerebbe il principio di uguaglianza fissato

dall’art. 3 Cost. ed il principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost.

2.− In via preliminare, i ricorrenti dei giudizi a quibus di cui alle ordinanze n.

245 e n. 246 del 2012 eccepiscono l’inammissibilità, in relazione al requisito della

rilevanza, delle questioni sollevate dal rimettente, perché la norma impugnata non

troverebbe applicazione per le nomine a ministro plenipotenziario e ad ambasciatore

che costituirebbero non una promozione o progressione di carriera, ma un

cambiamento di status.

Inoltre i medesimi ricorrenti eccepiscono un ulteriore motivo di inammissibilità

assumendo che la norma censurata, in quanto a carattere generale, non potrebbe

derogare la disciplina speciale che regola il rapporto di lavoro del personale della

carriera diplomatica, che oramai può ritenersi interamente contrattualizzato.

2.1.− Entrambe le eccezioni non sono fondate.

Tali eccezioni sono già state proposte nel corso dei giudizi a quibus quali motivi

di illegittimità dei provvedimenti impugnati.

Il Tribunale rimettente, nel motivare la rilevanza della questione, ha ritenuto di

non aderire alla prima delle tesi dei ricorrenti innanzi indicata, in ragione

dell’unitarietà del ruolo prevista dall’art. 101 del decreto del Presidente della

Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari

esteri). Il passaggio tra i gradi, secondo il Tar del Lazio, realizza un vero e proprio

sviluppo della carriera, rendendo irrilevante la diversa disciplina delle modalità di

progressione, ovvero «promozione» con decreto del Ministro degli esteri per i primi

tre gradi (artt. 103, 107 e 108) e «nomina» (artt. 109 e 109-bis) con decreto del

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Presidente della repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su

proposta motivata del Ministro degli affari esteri.

In ogni caso, in questa sede deve rilevarsi che l’art. 9, comma 21, terzo periodo,

del d.l. n. 78 del 2010, con la locuzione «progressioni di carriera comunque

denominate», fa riferimento a tutti i tipi di avanzamento di carriera, ricomprendendo

anche quelli che presuppongono l’esercizio di una elevata discrezionalità nella scelta

tra i candidati provenienti dai gradi inferiori, che, però, non può estendersi fino a

comprendere funzionari che abbiano un’anzianità nel grado di provenienza inferiore ai

minimi legislativamente previsti o a persone estranee alla carriera stessa.

In relazione all’altra eccezione di inammissibilità, non vi è dubbio che la norma

censurata trovi applicazione in tutti i rapporti d’impiego con le pubbliche

amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte che li disciplina.

3.− La questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l.

n. 78 del 2010, sollevata in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., non è fondata.

Il trattamento economico e funzionale del personale diplomatico, al contrario di

quanto sostiene il rimettente, non è eguale per tutti i dipendenti posizionati nel

medesimo grado. Al riguardo, occorre osservare, sia che la voce retributiva oggetto

della presente questione è solo una delle voci che costituiscono il trattamento

complessivo dei funzionari della carriera diplomatica, sia che nell’ordinamento di tale

personale non è prevista l’obbligatoria corrispondenza tra grado e funzioni e,

conseguentemente, tra grado e trattamento economico collegato all’esercizio delle

funzioni.

Per ciò che concerne il primo dei punti innanzi evidenziati, vi è da considerare

che l’art. 3 del d.P.R. 13 agosto 2010, n. 206 (Recepimento dell’accordo sindacale per

il personale della carriera diplomatica, relativamente al servizio prestato in Italia),

prevede che la voce relativa allo stipendio tabellare conviva, per il periodo in cui detti

funzionari prestano la loro attività in Italia, con altre due voci, retribuzione di

posizione e di risultato, e che per il personale che svolge le sue funzioni all’estero è

prevista la corresponsione di indennità e misure di favore disciplinate dagli artt. 170 e

seguenti del d.P.R. n. 18 del 1967 (tra le quali ha particolare rilievo quella «di servizio

all’estero»), sulle quali non opera, ovviamente, la cristallizzazione stipendiale di cui si

tratta. Ed è opportuno, al riguardo, tenere presente, con riferimento a quest’ultima

voce, che per il personale della carriera diplomatica lo svolgimento del servizio

all’estero non costituisce un dato occasionale, ma un normale adempimento delle

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funzioni relative allo svolgimento dei «compiti spettanti allo Stato in materia di

rapporti politici, economici, sociali e culturali con l’estero» attribuiti al Ministero

dall’art.12 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo,

a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59).

Quanto al secondo aspetto, vale a dire la presenza di disposizioni legislative che

escludono l’obbligatoria corrispondenza tra grado e svolgimento delle funzioni, deve

richiamarsi l’art. 101 del d.P.R. n. 18 del 1967, che prevede, al quarto comma, che: «Il

funzionario diplomatico che consegua l’avanzamento al grado superiore può

continuare ad esercitare le precedenti funzioni per il tempo richiesto dalle esigenze di

servizio»; al quinto comma, che: «In deroga a quanto stabilito dal terzo comma, lettera

b) del presente articolo, i funzionari diplomatici, purché compresi in ordine di ruolo

nei primi due terzi dell’organico del grado, possono essere destinati, per esigenze di

servizio, a coprire posti all’estero cui corrispondono funzioni del grado

immediatamente superiore, ai sensi della tabella 1, in sedi individuate con decreto del

Ministro degli affari esteri, di concerto con quello del tesoro, del bilancio e della

programmazione economica, fatto salvo quanto è disposto nel successivo sesto comma

per i capi di rappresentanza diplomatica»; e, al sesto comma, che: «Con il medesimo

decreto di cui al quinto comma del presente articolo sono altresì individuate le

rappresentanze diplomatiche a cui possono essere preposti, per ragioni di servizio,

consiglieri d’ambasciata compresi nei primi due terzi dell’organico del grado».

Risulta evidente, pertanto, che l’assunto da cui muove il rimettente circa

l’uniformità del trattamento retributivo del personale della carriera diplomatica in

relazione al grado o alle funzioni ricoperte e la necessaria corrispondenza tra le

funzioni esercitate e il grado ricoperto, non trova alcuna conferma nella disciplina del

personale della carriera diplomatica.

Inoltre, deve rilevarsi che, pur in presenza di un principio di carattere generale di

tendenziale allineamento stipendiale, per evitare, tra gli appartenenti alla medesima

qualifica o al medesimo grado, disparità di trattamento, nel caso di specie manca uno

degli elementi cui è connessa l’esigenza dell’identico trattamento retributivo, vale a

dire il possesso della medesima anzianità di servizio. Infatti, coloro che hanno

maturato il diverso trattamento connesso alla progressione in carriera avvenuta prima

del 2011 hanno comunque una maggiore anzianità di servizio, la quale già di per sé

può giustificare un diverso trattamento retributivo.

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Va sottolineato, infine, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è

ammessa una disomogeneità delle retribuzioni anche a parità di qualifica e di

anzianità nelle ipotesi di conservazione di elementi retributivi derivanti da posizioni

personali di stato, ovvero spettanti per effetto di incarichi o funzioni non aventi

carattere di generalità, ovvero derivanti dal mantenimento di più favorevoli trattamenti

economici comunque conseguiti in settori diversi dell’amministrazione. Sulla base di

queste motivazioni si è ritenuta legittima la disciplina (di cui all’art. 7 del decretolegge

19 settembre 1992, n. 384, recante «Misure urgenti in materia di previdenza, di

sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali», convertito, con

modificazioni, dall’art. 1 della legge 14 novembre 1992, n. 438) che ha determinato

l’abrogazione del cosiddetto istituto dell’allineamento stipendiale, già introdotto

dall’art. 4, terzo comma, del decreto-legge 27 settembre 1982, n. 681 (Adeguamento

provvisorio del trattamento economico dei dirigenti delle amministrazioni dello Stato,

anche ad ordinamento autonomo, e del personale ad essi collegato), convertito, con

modificazioni, dall’art. 1 della legge 20 novembre 1982, n. 869, «proprio al fine di

ovviare a situazioni di disparità di trattamento retributivo determinatesi nell’ambito di

una stessa qualifica in relazione al riconoscimento di trattamenti “personalizzati”, non

collegati a specifiche situazioni di stato del beneficiario e conseguenti al

“trascinamento” di anzianità pregresse maturate in qualifiche e ruoli diversi»

(sentenza n. 6 del 1994). Può, quindi, addirittura verificarsi che, in casi particolari,

nella stessa amministrazione dipendenti con minore anzianità di servizio e,

presumibilmente, con incarichi di minor rilievo percepiscano retribuzioni più elevate.

4.− Le questioni di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l.

n. 78 del 2010, per violazione degli artt. 2, 3 e 36 97 Cost., sono parimenti non

fondate.

In riferimento agli artt. 36 e 97 Cost. questa Corte si è ripetutamente espressa

nel senso che «la proporzionalità e sufficienza della retribuzione devono essere

valutate considerando la retribuzione nel suo complesso, non in relazione ai singoli

elementi che compongono il trattamento economico (ordinanza n. 368 del 1999;

sentenza n. 15 del 1995), mentre il principio di buon andamento dell’amministrazione

non può essere richiamato per conseguire miglioramenti retributivi (ordinanza n. 205

del 1998; sentenza n. 273 del 1997)» (ordinanza n. 263 del 2002).

Risulta evidente, pertanto, l’infondatezza delle censure relative alla lesione del

diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del

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lavoro prestato, quale quella che si deve presumere in relazione alla retribuzione

tabellare attuale dei ricorrenti nei giudizi principali, e alla lesione del buon andamento

della pubblica amministrazione.

Con riferimento ai restanti parametri, deve evidenziarsi che, nel caso in esame,

la misura adottata è giustificata dall’esigenza di assicurare la coerente attuazione della

finalità di temporanea “cristallizzazione” del trattamento economico dei dipendenti

pubblici per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica, realizzata con

modalità per certi versi simili a quelle già giudicate da questa Corte non irrazionali ed

arbitrarie (sentenze n. 496 e n. 296 del 1993; ordinanza n. 263 del 2002), anche in

considerazione della limitazione temporale del sacrificio imposto ai dipendenti

(ordinanza n. 299 del 1999).

Va in questa sede ribadito il principio, affermato più volte da questa Corte,

secondo il quale dalla disciplina costituzionale in vigore non è dato desumere, per i

diritti di natura economica connessi a rapporti di durata, anche nel pubblico impiego,

una specifica protezione contro l’eventualità di norme retroattive: di talché, su questo

piano, il vero limite nei confronti di norme di tale natura non può essere ricercato altro

che nell’esigenza del rispetto del principio generale di ragionevolezza comprensivo

della tutela dell’affidamento (ex plurimis, sentenze n. 31 e n. 1 del 2011; n. 302 del

2010; n. 228 del 2010; n. 74 del 2008).

In assenza di un’esigenza costituzionale di parità di trattamento ed a fronte di

una situazione di fatto in cui lo stesso verificarsi della “progressione di carriera”

rappresenta un’eventualità di non sicura attuazione, pertanto, la norma censurata non

può dirsi irragionevole viste le sue finalità di contenimento della spesa pubblica per

far fronte alla grave crisi economica. Spetta infatti al legislatore, nell’equilibrato

esercizio della sua discrezionalità e tenendo conto anche delle esigenze fondamentali

di politica economica (sentenze n. 477 e n. 226 del 1993), bilanciare tutti i fattori

costituzionalmente rilevanti.

Nelle ordinanze da n. 243 a n. 246 del 2012, il rimettente afferma, con

riferimento alla ipotizzata violazione dell’art. 36 Cost., che «la disposizione non

regola la posizione di coloro tra essi che, nominati Ministri Plenipotenziari [o

«Ambasciatori»: ordinanza n. 246] nel considerato triennio 2011/2013, saranno,

nell’arco dello stesso periodo, collocati a riposo per raggiunti limiti di età». Poiché la

questione non costituiva oggetto dei giudizi principali, il rimettente formula la sopra

riportata considerazione, con la quale imputa al legislatore un’omissione (quella cioè

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di non aver regolato situazioni che presentavano determinate peculiarità), senza però

farne, correttamente, oggetto di una specifica richiesta atta a promuovere su questo

diverso aspetto il giudizio incidentale. Il punto, quindi, esula dal presente

procedimento.

5.− Anche la questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, terzo periodo,

del d.l. n. 78 del 2010, per violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost., non è fondata.

La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente precisato che gli elementi

indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta,

in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del

soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto

sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e

derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche

spese.

Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle

pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico

indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008); indice che deve esprimere

l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria (sentenze n. 91 del 1972, n. 97

del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965, n. 45 del 1964).

La norma censurata, sulla base degli indici ora riportati, non ha natura tributaria

in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente

pubblico. Pertanto, in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della

stessa natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto per

affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a mancare anche il

requisito relativo all’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, in quanto la

disposizione non realizza un’acquisizione che, anche in via indiretta, venga a fornire

copertura a pubbliche spese, ma determina un risparmio di spesa.

Anche tale ultima censura non è, quindi, fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma

21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia

di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con

modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevata, in

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riferimento agli articoli 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, dal Tribunale

amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe.

   

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