Dipendente Polizia di Stato titolare di una autorizzazione amministrativa di commercio fisso - Diffida ad interrompere l'attività entro 15 giorni - Decadenza dall'impiego

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Categoria: Sentenze - Ordinanza - Parere - Decreto
Creato Lunedì, 12 Novembre 2012 01:11
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T.A.R. Lazio Roma Sez. I ter, Sent., 31-10-2012, n. 8932
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Attraverso l'atto introduttivo del presente giudizio, notificato in data 10 novembre 1995 e depositato il successivo 22 novembre 1995, il ricorrente - sovrintendente capo della Polizia di Stato - impugna il provvedimento con cui, in data 21 agosto 1995, il Ministero dell'Interno lo ha diffidato "per essere egli risultato titolare di un'autorizzazione amministrativa di commercio fisso prestando attivamente la sua opera presso l'esercizio di sua proprietà", avvertendolo - nel contempo - che, "decorsi 15 giorni dalla notificazione del presente atto di diffida, senza che l'incompatibilità stessa sia venuta meno, il dipendente decadrà dall'impiego".
Ai fini dell'annullamento il ricorrente - dopo aver rappresentato di aver acquistato in data 30 dicembre 1981 una piccola attività di vendita al minuto di articoli per l'abbigliamento e di aver affidato la gestione dell'azienda familiare alla moglie, iscritta fin dal 26 gennaio 1983 presso la Camera di Commercio Industria Artigianato - deduce i seguenti motivi di impugnativa:
A) VIOLAZIONE ART. 50 D.P.R. 24 aprile 1982, n. 335, atteso che il legislatore ha inteso sanzionare non la titolarità di un'azienda, bensì lo svolgimento dell'attività connessa al commercio, all'industria ovvero a professioni o mestieri, e, dunque, è da escludere che la mera titolarità di un'azienda comporti "automatica incompatibilità" (pena l'illegittimità costituzionale della previsione in argomento).
B) ECCESSO DI POTERE PER CARENZA DI ISTRUTTORIA. VIOLAZIONE DELLA L. N. 241 DEL 1990, tenuto conto che - contrariamente a quanto affermato nel provvedimento - il ricorrente ha fatto sempre gestire l'attività di commercio alla moglie, mentre l'attività lavorativa veniva svolta dal figlio, sicché "nessun accertamento avrebbe potuto condurre a ritenere il ricorrente partecipe della gestione dell'attività familiare". Ove tale accertamento fosse stato effettivamente eseguito, "se ne sarebbe dovuto fare specifico riferimento nel provvedimento impugnato... e avrebbe dovuto costituire oggetto di preventiva comunicazione ... ai sensi della L. n. 241 del 1990".
Con atto depositato in data 2 dicembre 1995 si è costituito il Ministero dell'Interno.
Alla camera di consiglio del 14 dicembre 1995 il ricorrente ha chiesto la cancellazione della causa dal ruolo.
In data 10 gennaio 2012 l'Amministrazione ha prodotto una nota - datata 30 gennaio 1997 - da cui risulta che il ricorrente è stato dichiarato decaduto dall'impiego.
Con memoria depositata in data 27 luglio 2012 il ricorrente ha reiterato le censure formulate.
In data 3 agosto 2012 l'Amministrazione ha depositato ulteriori documenti.
In data 18 settembre 2012 il ricorrente ha eccepito la tardività della predetta produzione documentale, in ragione di quanto prescritto dall'art. 73 c.pr.amm., e, comunque, si è riservato "di proporre querela di falso", "al fine di accertare la validità del contenuto di tale produzione documentale".
All'udienza pubblica dell'11 ottobre 2012 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
1.1. Come esposto nella narrativa che precede, il ricorrente lamenta l'illegittimità del provvedimento con cui, in data 21 agosto 1995, il Ministero dell'Interno l'ha diffidato "dal permanere nella prospettata condizione di incompatibilità" (individuata, oltre che nella titolarità da parte del predetto di una licenza di commercio, nella prestazione della "sua opera presso l'esercizio di sua proprietà"), avvertendolo - nel contempo - "che, decorsi 15 giorni dalla notifica del presente atto di diffida, senza che l'incompatibilità stessa sia venuta meno, il dipendente decadrà dall'impiego".
A tale fine denuncia i vizi di violazione di legge (in particolare, art. 50 del D.P.R. n. 335 del 1982) ed eccesso di potere sotto svariati profili.
Le censure formulate sono infondate per le ragioni di seguito indicate.
2. Per quanto attiene alla violazione dell'art. 50 del D.P.R. n. 335 del 1982, recante l'"Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di Polizia" , appare opportuno ricordare che la citata disposizione prevede:
"Il personale di cui al presente decreto non può esercitare il commercio, l'industria né alcuna professione o mestiere o assumere impieghi pubblici o privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, salvo i casi previsti da disposizioni speciali.
Il divieto di cui al comma precedente non si applica nei casi di società cooperative tra impiegati dello Stato.
Il personale può essere prescelto come perito o arbitro, previa autorizzazione del Ministro o del capo dell'ufficio da lui delegato".
Stante la formulazione della previsione de qua, appare chiaro che si tratta di un'ulteriore ipotesi in cui trova espresso riconoscimento il principio di esclusività che presidia - in generale - il rapporto di pubblico impiego (in virtù dell'art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, il quale richiama l'art. 60 del T.U. n. 3 del 1957 - cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 17 settembre 2008, n. 4394; TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 11 settembre 2008, n. 1910).
Più specificamente, si tratta di una previsione che mira a salvaguardare l'autonomia degli appartenenti alla Polizia di Stato, affinché l'espletamento dei relativi compiti e/o funzioni possa avvenire nel pieno rispetto dei doveri imposti dalla legge e, comunque, con prestazione di piena efficienza nell'attività lavorativa, evitando che le energie del dipendente vengano, tra l'altro, affievolite a causa dell'espletamento di ulteriori, diversi servizi.
In definitiva, la previsione in argomento - nello stabilire la materiale impossibilità di attendere contemporaneamente a diverse attività e, dunque, imponendo al personale della Polizia di Stato di prestare in esclusiva la sua attività lavorativa, pena la decadenza dall'impiego - risponde all'interesse pubblico riguardante il corretto espletamento da parte del dipendente delle proprie mansioni.
Ciò detto, anche non prendendo in considerazione la documentazione prodotta in data 3 agosto 2012, in linea con la richiesta del ricorrente, non si ravvisano ragioni per affermare che l'Amministrazione non abbia correttamente operato.
Il provvedimento adottato dal Ministero dell'Interno ed ora oggetto di impugnazione consiste, infatti, nella diffida "dal permanere" in una "condizione di incompatibilità", la quale risulta ben individuata in virtù dell'espresso riferimento al previo accertamento dei seguenti presupposti di fatto:
- la titolarità di una licenza di commercio;
- la attiva prestazione della propria opera da parte del ricorrente "presso l'esercizio di sua proprietà".
In ragione di tale constatazione e del rilievo che - in ogni caso - i presupposti di cui sopra non sono oggetto di adeguata confutazione da parte del ricorrente (anche in ragione del principio secondo il quale la titolarità di una licenza di commercio comunque comporta il presidio o, comunque, la direzione dell'attività economica in concreto esercitata), appare evidente che:
- non è ravvisabile la violazione del riportato art. 50 del D.P.R. n. 335 del 1982;
- non sussiste eccesso di potere, anche in ragione del rilievo che il ricorrente si limita a mere dichiarazioni in ordine alla gestione dell'attività di commercio ma si astiene dal fornire qualsiasi elemento di prova atto concretamente a supportare la propria estraneità a quest'ultima (la quale si pone, tra l'altro, di per sé in contrasto con la titolarità della licenza);
- quanto già osservato induce, altresì, ad affermare che - a parte considerazioni in ordine all'urgenza che ordinariamente connota le "diffide" - non emergono ragioni per ritenere che il provvedimento impugnato avrebbe potuto avere un diverso contenuto, il che determina l'inidoneità dei vizi di procedura - quale la violazione dell'art. 7 della L. n. 241 del 1990 in materia di comunicazione dell'avvio del procedimento - a giustificare l'annullamento del provvedimento stesso a norma dell'art. 21 octies della citata L. n. 241 del 1990.
3. In conclusione, il ricorso va respinto.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in Euro 1.500,00 a favore del Ministero dell'Interno.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso n. 14165/1995, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, così come liquidate in motivazione.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.