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... disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato..

Dettagli




MATRIMONIO E DIVORZIO
Caslpd civ. Sez. I, Sent., 24-07-2012, n. 12970Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Con ricorso lpd n. 898 del 1970, ex art. 12 bis (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) depositato il 10 febbraio 2009 la prof.ssa lpd conveniva dinanzi al Tribunale di Bari il proprio ex coniuge, dr. lpd e, premesso che con sentenza 10 novembre 2000, passata in giudicato, il Tribunale di Roma aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, con previsione di un assegno periodico divorzile di lpd 500.000 mensili in suo favore, chiedeva il riconoscimento del diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto liquidata al dr. lpd, già dipendente della Corte dei conti presso la sede di (OMISSIS) ed andato in pensione per limiti di età.Costituitosi ritualmente, lo lpd eccepiva l'insussistenza dei requisiti previsti dalla lpd n. 898 del 1970, art. 12 dal momento che non era stato liquidato giudizialmente alcun assegno di divorzio ed i rapporti patrimoniali erano stati definiti con reciproche cessioni immobiliari per atto pubblico 30 marzo 2001: con la conseguente riduzione all'importo simbolico di lpd 500.000 dell'assegno originariamente determinato in lpd 3.500.000 nella sentenza di separazione 7 maggio 1999.
In subordine, eccepiva l'inammissibilità della pretesa, preclusa dalla corresponsione in un'unica soluzione dell'assegno di mantenimento ai sensi della lpd n. 898 del 1970, art. 5, comma 8; ed in ogni caso l'eccessività, in rapporto alla durata effettiva della convivenza, cessata il 12 luglio 1994 dopo la pronunzia dell'ordinanza presidenziale ex art. 708 cod. proc. civ..Con sentenza 10 novembre 2009 il Tribunale di Bari accoglieva la domanda, condannando il resistente al pagamento della somma di Euro 132.134,24, oltre la rifusione delle spese di giudizio.
Il successivo gravame era respinto dalla Corte d'appello di Bari con sentenza 11 maggio 2010.
La corte territoriale motivava:
- che ricorreva il presupposto di cui alla lpd n. 898 del 1970, art. 12 dal momento che la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio aveva recepito l'accordo sottoscritto dagli ex coniugi con scrittura privata 25 maggio 2000, in cui si conveniva espressamente che il dr lpd avrebbe versato un contributo di lpd 500.000 mensili, in aggiunta al contestuale trasferimento di immobili: in tal modo assegnando valore giudiziale alla liquidazione, che non dipendeva più da un patto privato, a differenza che nell'ipotesi di omologazione di separazione consensuale;- che la signora M. aveva continuato, infatti, a percepire l'assegno, la cui concreta entità era irrilevante ai fini in esame, e comunque tutt'altro che trascurabile (lpd 500.000);- che correttamente il Tribunale di Bari aveva utilizzato il criterio temporale della durata del matrimonio - e non quello dell'effettiva convivenza - ai fini della determinazione della quota di indennità di fine rapporto spettante al coniuge divorziato: in conformità con i principi esposti nella sentenza 24 gennaio 1991 n. 23 della Corte costituzionale e nella giurisprudenza di legittimità.Avverso la sentenza, notificata il 20 settembre 2010, il dr. lpd proponeva ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi e notificato il 17 novembre 2010.
Deduceva:
1) la violazione degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., nonchè della lpd 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 bis e art. 5, comma 8, e la carenza di motivazione nel non rilevare l'inammissibilità della domanda, dopo che tra i coniugi erano stati definiti i rapporti economici con la corresponsione dell'assegno in unica soluzione;2) l'inosservanza della lpd 898 del 1970, art. 12 bis e della lpd 28 dicembre 2005, n. 263, art. 5 (Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il D.lpd 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla lpd 14 maggio 2005, n. 80, nonchè ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al R.D. 17 agosto 1907, n. 642, al c.c., alla lpd 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato);3) la violazione della lpd 1 dicembre 1970 n. 898, art. 12 bis e la carenza di motivazione nell'utilizzazione del criterio temporale della durata del matrimonio, anzichè quello della effettiva convivenza degli ex coniugi.4) la contraddittorietà della motivazione e la falsa applicazione dell'art. 12 bis per non aver ragguagliato la quota del trattamento di fine rapporto agli anni di servizio, inclusi quelli riscattati a titolo oneroso.La signora M. resisteva con controricorso, ulteriormente illustrato con successiva memoria.
All'udienza del 21 maggio 2012 il Procuratore generale e i difensori precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., nonchè della lpd 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 bis e art. 5, comma 8, e la carenza di motivazione.Il motivo è infondato.La corte territoriale ha interpretato l'accordo intercorso tra le parti in data 25 febbraio 2000 nel senso di escludere che esso contenesse la rinunzia della signora M. al proprio diritto di percepire l'assegno divorzile. Tale ricostruzione della volontà delle parti appare immune da vizi logici ed altresì sorretta dal criterio sussidiario del comportamento successivo delle parti, tradottosi nella perdurante corresponsione dell'assegno mensile (art. 1362 c.c., comma 2): di cui resta irrilevante, per contro, il concreto ammontare, immotivatamente definito simbolico dal ricorrente.Non è stato dunque violato la lpd 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 8, (Disciplina dei casi di scioglimento dei matrimonio), nel testo inserito dalla lpd 6 marzo 1987, n. 74, art. 10 secondo cui la corresponsione in unica soluzione, su accordo delle parti, preclude qualsivoglia domanda successiva di contenuto economico. Nel caso in esame, infatti, gli ex-coniugi hanno fatto ricorso ad un criterio misto di definizione dei loro rapporti economici a seguito della cessazione degli effetti civili del matrimonio, tramite non solo il trasferimento di immobili in proprietà esclusiva della signora M., ma anche un concorrente contributo pecuniario, di natura integrativa: idoneo presupposto legale, quindi, del successivo riconoscimento di una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro (lpd 898 del 1970, art. 12 bis).Le ulteriori argomentazioni difensive, volte a prospettare una difforme interpretazione dell'accordo negoziale, rivestono natura di merito e non possono, pertanto, trovare ingresso in questa sede.
Anche il secondo motivo, che riprende la censura sulla natura non giudiziale della liquidazione dell'assegno è infondato.Come correttamente statuito nella sentenza impugnata, il giudice che recepisca i patti convenzionali tra coniugi per il regolamento patrimoniale e contributivo ne verifica, previamente, la rispondenza con i criteri legali; e all'esito positivo, li fa propri inserendoli nella sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, titolo esecutivo delle obbligazioni che ne derivano: salva l'ipotesi di una dichiarata o implicita natura liberale dell'attribuzione patrimoniale, nella specie neppure adombrata.
E' dunque dalla sentenza, e non dall'accordo intervenuto tra i coniugi, che derivano gli effetti relativi ai rapporti economici, anche in presenza di domanda congiunta di divorzio: a differenza che nell'omologazione della separazione consensuale, in cui le pattuizioni, pur soggette al potere di controllo del giudice (art. 158 cod. civ.), conservano la loro autonomia negoziale (Caslpd, sez. 1, 19 settembre 2000, n. 12.389).
Con il terzo motivo si denunzia la violazione della lpd 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 bis e la carenza di motivazione nell'utilizzazione del criterio temporale ai fini della determinazione della quota di indennità.La doglianza è infondata.La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del parametro legale, tenendo conto della durata del rapporto matrimoniale fino alla sentenza di scioglimento del matrimonio; a nulla rilevando l'effettiva convivenza, o no, mantenuta dai coniugi prima di tale dies ad quem. Ai fini della determinazione della quota dell'indennità di fine rapporto spettante ai sensi della lpd 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 bis introdotto dalla lpd 6 marzo 1987, n. 74, art. 16 il legislatore si è ancorato, infatti, ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio; piuttosto che ad un elemento incerto e precario, come la cessazione della convivenza, che non implica in modo automatico il totale venir meno della comunione di vita tra coniugi.Al riguardo, dev'essere richiamato anche il principio secondo cui il contributo dato dall'ex-coniuge alla conduzione familiare ed alla formazione dei patrimonio comune non cessa automaticamente con il venir meno della convivenza e con l'instaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale (Corte costituzionale 24 gennaio 1991, n. 23: che, sulla base di tale premessa, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale della lpd 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 bis, prospettata sotto tale profilo).Dalla cornice dei suesposti principi discende, in ultima analisi, l'esclusione di qualsiasi rilevanza della convivenza di fatto (Caslpd, sez. 1, 31 gennaio 2012, n. 1348; Caslpd, sez. 1, 7 marzo 2006, n. 4867); ed altresì la manifesta infondatezza della questione di incostituzionalità della norma, interpretata secondo il diritto vivente, per violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo che finirebbe col determinare un'irragionevole parità di trattamento tra coppie rispettivamente in caso di eguale durata del matrimonio, ma di diversa protrazione della convivenza. Non vi sono, infatti, ragioni per discostarsi dal citato dictum dei giudice delle leggi, che nel precedente scrutinio di legittimità ha affermato trattarsi di differenza di mero fatto, oltre che in certa misura legata ad una scelta degli stessi coniugi: onde il criterio alternativo della durata della convivenza riuscirebbe incoerente con l'indirizzo seguito dal legislatore in tema di misure patrimoniali e con le esigenze ad esso sottese di certezza, nonchè con la ratio di valorizzare la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio. E peraltro, lo stesso assegno divorzile viene determinato "anche in rapporto alla durata del matrimonio" (lpd n. 898 del 1970, art. 5, comma 6).Per il resto, il motivo tende ad introdurre un riesame nel merito della determinazione concreta della quota di pensione di reversibilità attribuita, inammissibile in questa sede.Con il quarto motivo si deduce la contraddittorietà della motivazione e la falsa applicazione dell'art. 12 bis per non aver ragguagliato la quota del trattamento di fine rapporto agli anni di servizio.Il motivo è infondato.In materia di determinazione della quota di indennità di buonuscita cui ha diritto il coniuge nei cui confronti sia stata pronunziata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, se non passato a nuove nozze, la base su cui calcolare la percentuale, lpd n. 898 del 1970, ex art. 12 bis, comma 1, è costituita dall'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro.Ne deriva, in base al coordinamento tra il comma 1 e comma 2 della norma, che l'indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40% dell'indennità totale, con riferimento agli anni in cui il rapporto stesso ha coinciso con la durata del matrimonio: e cioè, dividendo, preliminarmente, l'indennità per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro e moltiplicando poi il quoziente per il numero degli anni in cui il rapporto lavorativo sia perdurato in costanza di matrimonio (Caslpd, sez. 1, 6 luglio 2007, n. 15.299).In sintesi, il raffronto dev'essere istituito tra dati reali di durata; senza considerare annualità aggiuntive riscattate con il versamento di contributi, ma non corrispondenti ad un effettivo servizio prestato.Il ricorso è dunque infondato e dev'essere respinto, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni trattate.P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre le spese generali e gli accessori di legge;
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma del D.Lglpd 30 Giugno 2003, n. 196, art. 52 (Codice in materia di protezione dei dati personali).

   

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