mobbing: "on violenza e minaccia di licenziarla, e con abuso di autorità, costringeva (@@@) a subire e compiere atti sessuali"

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Categoria: Sentenze - Ordinanza - Parere - Decreto
Creato Martedì, 31 Luglio 2012 01:14
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SENTENZA PENALE   -   VIOLENZA SESSUALE
Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 19-04-2012) 22-05-2012, n. 19424

Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 17.5.2011 la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza emessa il 5.5.2010 dal Tribunale di Varese, con la quale (@@@) era stato condannato alla pena di anni 5 di reclusione per il delitto di cui ali1 art. 609 bis cod. pen. "perchè, con violenza e minaccia di licenziarla, e con abuso di autorità, costringeva (@@@) a subire e compiere atti sessuali, in particolare nella sua qualità di direttore del personale del centro commerciale (@@@) di (OMISSIS) e quindi di superiore della parte lesa, la quale rivestiva il ruolo di commessa, dopo averla afferrata per un braccio, la baciava con violenza, le palpava furiosamente le zone intime, le strofinava il proprio organo genitale contro le natiche, e la penetrava con un dito in zona anale; infine le prendeva la mano e l'appoggiava sul proprio organo genitale"; nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
Dopo aver richiamato le risultanze processuali, in base alle quali il Tribunale era pervenuto ad un giudizio di responsabilità dell'imputato, riteneva la Corte territoriale che i motivi di appello, proposti dal B., fossero da disattendere.
Premesso che le richieste istruttorie volte all'acquisizione di documenti non erano accoglibili in assenza dei presupposti di cui all'art. 603 cod. proc. pen., assumeva la Corte che le dichiarazioni assolutamente attendibili della persona offesa, perchè lucide, articolate, specifiche e reiterate, trovassero conferma in numerosi elementi esterni.
L' attendibilità della M. non poteva, poi, certo essere posta in dubbio dalle legittime iniziative legali da essa assunte a tutela dei propri diritti oppure dai disturbi psichici che, a seguito dei fatti di causa, avevano costretto la donna a far ricorso ad uno psichiatra (non essendo essi tali da alterare il rapporto con la realtà e perciò a determinare un'inidoneità a rendere testimonianza).
In ordine ai riscontri la Corte territoriale rinviava alla sentenza di primo grado che li aveva individuati nelle testimonianze di C.P. e L.S.R. (quest'ultimo teste non solo de relato, avendo ricevuto sostanziali ammissioni da parte dell'imputato nel corso di due telefonate) e, soprattutto, del dr. P.N. che aveva fornito tutti gli elementi necessari a ricollegare eziologicamente la sofferenza psichica della M. alle vessazioni ed alle molestie sessuali dell'imputato.
Riteneva, poi, la Corte non concedibili la circostanza attenuante del fatto di minore gravità, per la notevole invasività della condotta e per le gravi conseguenze psicologiche provocate alla vittima, e le circostanze attenuanti generiche, essendo il fatto contestato l'epilogo di comportamenti vessatori, reiterati nel tempo, posti in essere dall'imputato.
2. Ricorre per cassazione (@@@).
Dopo il riepilogo dei fatti e dello svolgimento del processo ed il richiamo dei motivi di appello, denuncia, con il primo motivo la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione all'art. 603 c.p.p., comma 1, art. 495 c.p.p., comma 2, art. 190 c.p.p., comma 1 e art. 181 c.p.p., comma 4 nonchè all'art. 2 Cost., art. 111 Cost., comma 3, la mancanza di motivazione ed il travisamento delle risultanze probatorie in relazione all'art. 605 c.p.p. e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e).
Il dr. P., che aveva avuto in terapia la M. dal gennaio 2004, nel corso della sua deposizione aveva fatto riferimento ad un memoriale redatto dalla donna, nel quale costei aveva esposto (a dire del teste) tutte le vessazioni cui era stata sottoposta. La difesa aveva fatto immediata richiesta di acquisizione di detto materiale, cui il teste, per sua stessa ammissione, non aveva fatto riferimento in precedenza, ma il Tribunale non solo ignorava siffatta richiesta, ma traeva dallo stesso memoriale argomenti di prova (sulla base dei riferimenti del teste). Evidente è la violazione del diritto di difesa non essendosi potuto esaminare il documento in questione.
La Corte territoriale, nonostante la specifica richiesta formulata in proposito ex art. 603 cod. proc. pen., si è limitata ad affermare genericamente il difetto dei presupposti per far luogo a rinnovazione parziale del dibattimento.
Il convincimento della Corte in ordine alla idoneità della M. a rendere testimonianza risulta intrinsecamente viziato perchè fondato su un'acquisizione probatoria parziale, stante l'illegittimo diniego di acquisizione del memoriale, e per il mancato espletamento di perizia ex art. 196 c.p.p., comma 2.
Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge in relazione agli artt. 194, 196, 236, 238 e 238 bis cod. proc. pen., nonchè la mancanza di motivazione e travisamento delle risultanze probatorie in relazione agli artt. 238 bis e 187 cod. proc. pen..
La richiesta di perizia sulla capacità della p.o. a rendere testimonianza veniva disattesa dal Tribunale; tale richiesta veniva reiterata inutilmente nel giudizio di appello.
La mancanza di perizia rendeva ancor più necessaria una rigorosa verifica di attendibilità, intrinseca ed estrinseca, della p.o..
Le dichiarazioni della M., con riferimento all'unico episodio di abuso sessuale commesso il (OMISSIS), non hanno trovato alcun riscontro esterno (i testi hanno riferito di confidenze ricevute sulle vessazioni subite ma non in ordine all'episodio di cui alla contestazione); peraltro il giudizio per "mobbing" da parte del B. si è concluso con una sentenza di rigetto, passata in giudicato ed acquisita ex art. 238 c.p.p., comma 2, unitamente ai relativi verbali di prova.
I Giudici di appello, facendo riferimento all'autonomia dei rispettivi giudizi (anche con riferimento alla vertenza con l'Inail in ordine all'esistenza di una malattia professionale), hanno ritenuto non decisive le acquisizioni dei giudizi civili, senza però indicare alcun elemento di prova, acquisito in sede penale, idoneo a giustificare la ritenuta non decisività, e con motivazione assolutamente generica. A parte il fatto che in ordine ai riferimenti soltanto de relato, quanto alle modalità del fatto di cui alla contestazione, vi è stato un vero e proprio travisamento delle testimonianze P., C., M. e S..
La prova dello specifico accadimento delittuoso rimane quindi affidata alle sole dichiarazioni della p.o. ritenuta apoditticamente attendibile e senza neppure l'espletamento di una perizia sulla sua capacità a testimoniare, ed alle dichiarazioni de relato del fidanzato. L'unico elemento "esterno" cui i Giudici di merito attribuiscono rilevanza probatoria è rappresentato dal foglio delle presenze, in entrata ed in uscita, del giorno 30 novembre 2003, ma anche in proposito i rilievi della difesa non sono stati presi in alcuna considerazione.
Con il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 609 bis c.p., u.c., il travisamento del fatto e delle risultanze probatorie, nonchè la mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell'ipotesi di minore gravità.
Nei motivi di appello si era evidenziato che il Tribunale, anzichè valutare l'episodio contestato, aveva fatto riferimento a condotte non provate e comunque estranee al processo. La Corte territoriale, pur non riprendendo formalmente le argomentazioni del Tribunale, ha di fatto ignorato tali censure non avendo adeguatamente argomentato in ordine alle ragioni per cui quell'unico episodio contestato fosse di notevole invasività e avesse cagionato gravi conseguenze psicologiche. Con il quarto motivo denuncia la violazione di legge in relazione all'art. 133 cod. pen., il travisamento della prova ed il vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte territoriale, non solo ha omesso di valutare le doglianze contenute in proposito nell'atto di appello, ma ha preso in considerazione il protrarsi nel tempo di condotte vessatorie, rimaste indimostrate nel giudizio penale (sono emerse solo serie incomprensioni e difficoltà di rapporti tra l'imputato e la p.o.);
peraltro anche nel giudizio civile di danni, promosso dalla M., non è emersa alcuna vessazione e la sentenza è passata in giudicato.
Con il quinto motivo, infine, deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 600 c.p.p., comma 3, nonchè la mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in relazione al rigetto della richiesta di sospensione della condanna dell'imputato al pagamento della provvisionale in favore della parte civile.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
2. Quanto al primo motivo, non c'è dubbio che in un sistema processuale come quello vigente, caratterizzato dalla dialettica delle parti, alle quali compete l'onere di allegare le prove a sostegno delle rispettive richieste, il giudice debba limitarsi a valutare soprattutto la pertinenza della prova al thema decidendum.
Ogni diversa valutazione, collegata alla attendibilità della prova e quindi al "risultato" della stessa, esula dai poteri del giudice (l'art. 190 prevede invero che le prove sono ammesse a richiesta di parte) e finirebbe per espropriare le parti del diritto alla prova.
Tale diritto alla prova non è, però, "assoluto", ponendo lo stesso legislatore dei limiti: il giudice è tenuto infatti ad escludere le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti (art. 190 c.p.p., comma 1).
Tali principi sono stati reiteratamente ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui "il diritto all'ammissione della prova indicata a discarico sui fatti costituenti oggetto della prova a carico, che l'art. 495 c.p.p., comma 2 riconosce all'imputato incontra limiti precisi nell'ordinamento processuale, secondo il disposto degli artt. 188, 189 e 190 cod. proc. pen. e, pertanto, deve armonizzarsi con il potere-dovere, attribuito al giudice del dibattimento, di valutare la liceità e la rilevanza della prova richiesta, ancorchè definita decisiva dalla parte, onde escludere quelle vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti" (cfr. Cass. pen. sez. 2 n. 2350 del 21.12.2004).
Per quanto riguarda il giudizio di secondo grado è altrettanto indubitabile che "...il giudice d'appello, dinanzi al quale sia dedotta la violazione dell'art. 495 c.p.p., comma 2, deve decidere sull'ammissibilità della prova secondo i parametri rigorosi previsti dall'art. 190 c.p.p., mentre non può avvalersi dei poteri meramente discrezionali riconosciutigli dal successivo art. 603 in ordine alla valutazione di ammissibilità delle prove non sopravvenute al giudizio di primo grado" (cfr. Cass. sez. 6 n. 761 del 10.10.2006).
Laddove, invece, non venga dedotta la violazione dell'art. 495 c.p.p., il giudice di appello, in presenza di una richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, a norma dell'art. 603 c.p.p., comma 1, dispone l'integrazione istruttoria solo se ritenga che il processo non possa essere deciso allo stato degli atti.
Nel caso in cui, invece, le nuove prove siano sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice di appello dispone la rinnovazione dell'istruzione nei limiti previsti dall'art. 495, comma 1 (art. 603 c.p.p., comma 2). Cass. pen. Sez. 3 n. 8382 del 22.1.2008; Cass. pen. sez. 1 n. 39663 del 7.10.2010. La netta distinzione tra le due diverse ipotesi è pacificamente riconosciuta, per cui quando in appello venga richiesta l'assunzione di nuove prove, il giudice di appello è obbligato a disporre la rinnovazione del dibattimento se le nuove prove di cui si chiede l'assunzione siano sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, mentre negli altri casi solo se ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti.
Il sistema delineato dal legislatore è, quindi, assolutamente lineare e coerente. La parte che non abbia fatto richiesta dei mezzi di prova nei limiti e nei termini di cui all'art. 495 può (a parte il caso di ammissioni di prove ex art. 507 c.p.p. cui non può non far seguito l'ammissione delle eventuali prove contrarie), successivamente, vedersi riconosciuto il diritto alla prova soltanto se si tratti di prove nuove o scoperte dopo il giudizio di primo grado. In tal caso (e solo in tal caso) vi è una sorta di "restituzione in termini", venendo la parte rimessa nella situazione preesistente; sicchè il giudice deve decidere sull'ammissione della prova secondo i criteri di cui al combinato disposto dell'art. 495, comma 1 (richiamato dall'art. 603 c.p.p., comma 2) e art. 190 c.p.p., potendola quindi rigettare soltanto se "manifestamente superflua o irrilevante".
Tanto premesso, risulta dallo stesso ricorso che l'esistenza del "diario" emerse nel corso della deposizione resa dal dott. P. nel corso del dibattimento di primo grado, per cui la richiesta di acquisizione dello stesso venne formulata dalla difesa ai sensi dell'art. 507 cod. proc. pen.. Ed è pacifico che in tema di ammissione di nuove prove non sussiste l'obbligo del giudice di disporre d'ufficio tutte le prove astrattamente pertinenti e rilevanti, bensì il potere dovere di disporre nuovi mezzi di prova quando risulti assolutamente necessario. Le nuove prove, rispetto a quelle inizialmente richieste dalle parti, sono soggette ad una più penetrante e approfondita valutazione della loro pertinenza e rilevanza che è correlativa alla più ampia conoscenza dei fatti di causa già acquisita. L'esercizio di tale potere-dovere, correlato alla difficoltà che il giudice ritiene sussistente di procedere ad un compiuto accertamento dei fatti sulla base delle risultanze già acquisite, può essere sindacato in sede di legittimità, ma in limiti più ristretti del potere di ammissione delle prove a richiesta di parte, disciplinato dall'art. 190 cod. proc. pen., richiedendosi una manifesta assoluta necessità della trascurata assunzione probatoria, emergente dal testo della sentenza impugnata (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 6, n. 724 del 24.1.1994; conf. Cass. sez. 3 n. 2273 del 4.6.1997; sez. 5 n. 5806 del 16.4.1998; sez. 6 n. 25.157 dell'11.6.2010).
Dalla motivazione complessiva della sentenza di primo grado emerge chiaramente perchè il Tribunale non ritenne assolutamente necessario acquisire il "diario" cui aveva fatto riferimento il dr. P..
Alla luce di tutte le acquisizioni probatorie ed in particolare delle dichiarazioni della persona offesa e dello stesso dr. P. risultava infatti superflua l'acquisizione di un documento, cui il sanitario aveva fatto ricorso per mere finalità terapeutiche ("per sbloccare le emozioni") pag. 19 e ss., 42 sent. Trib..
La Corte territoriale, a sua volta, ha ritenuto che non ricorressero i presupposti per disporre in proposito la rinnovazione del dibattimento. Pur nella genericità della motivazione dal testo della sentenza emerge come le prove già acquisite consentissero di decidere il processo allo stato degli atti.
La rinnovazione del dibattimento nella fase di appello ha, infatti, carattere eccezionale, dovendo vincere la presunzione di completezza dell'indagine probatoria del giudizio di primo grado. Ad essa può, quindi, farsi ricorso solo quando il giudice la ritenga necessaria ai fini del decidere.
E, secondo la giurisprudenza di questa Corte "in tema di rinnovazione, in appello, della istruzione dibattimentale, il giudice, pur investito con i motivi di impugnazione di specifica richiesta, è tenuto a motivare solo nel caso in cui a detta rinnovazione acceda; invero, in considerazione del principio di presunzione di completezza della istruttoria compiuta in primo grado, egli deve dar conto dell'uso che va a fare del suo potere discrezionale, conseguente alla convinzione maturata di non poter decidere allo stato degli atti. Non così viceversa, nella ipotesi di rigetto, in quanto, in tal caso, la motivazione potrà essere implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della sentenza di appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti alla affermazione, o negazione, di responsabilità" (cfr. Cass. sez. 5 n. 8891 del 16.5.2000; Cass. sez. 6 n. 5782 del 18.12.2006; conf. Cass. sez. 4 n. 47095 del 2.12.2009;
Cass. sez. sez. 3 n. 24294 del 7.4.2010).
Va, in ogni caso, rilevato che il vizio di "prova omessa" si verifica quando da esso derivi una disarticolazione dell'intero ragionamento probatorio ed una illogicità della motivazione sotto il profilo della rilevanza e della decisività.
Dallo stesso ricorso non risulta quale carattere decisivo avrebbe potuto avere l'acquisizione del "diario" in questione e, soprattutto, perchè esso sarebbe stato idoneo a scardinare completamente la motivazione della sentenza impugnata, fondata, come di seguito si vedrà, su un quadro probatorio assolutamente grave e convergente.
3. In relazione al dedotto omesso espletamento di perizia sulla persona offesa ai sensi dell'art. 196 c.p.p., comma 2, va ricordato, innanzitutto, che se il giudice è tenuto ad accertare, in concreto, la credibilità del testimone, anche in relazione alle eventuali condizioni psichiche, non è certo obbligato a disporre accertamenti per verificare, sempre ed in ogni caso, l'idoneità fisica e mentale del testimone, specie allorquando nessun elemento sia emerso per giustificare la pretesa incapacità del teste (cfr. Cass. pen. sez. 1, 31.3.1994 n. 3833).
I Giudici di merito hanno ampiamente argomentato in ordine alla piena attendibilità della persona offesa (confortata peraltro da numerosi elementi esterni) ed hanno, altresì, rilevato che i disturbi psichici, intervenuti a seguito delle vicende relative allo svolgimento della sua attività lavorativa presso il centro commerciale, non incidevano minimamente sulla sua idoneità a rendere testimonianza. Già il Tribunale aveva rilevato in proposito che la teste, nel corso dell'esame dibattimentale, era risultata "lucida, precisa e dotata di buone capacità logiche e cognitive" e che "non solo il dott. P. ma anche la stessa C.T. della Difesa hanno escluso sussistere il benchè minimo dubbio che induca a ricondurre la p.o. alla categoria dei soggetti deliranti" (pag. 43 sent. Trib.).
La Corte territoriale, in relazione allo specifico rilievo in ordine ad una "ventilata inidoneità mentale a rendere testimonianza", ha escluso decisamente una siffatta eventualità, sottolineando che i disturbi psichici, che avevano costretto la M. a far ricorso alle cure del dott. P., specializzato in psichiatria, non comportavano certo "un rapporto alterato con la realtà, e perciò un'inidoneità a rendere testimonianza, neppure sostenuta dal consulente tecnico di parte, dott. Z." (pag. 5 sent. app.).
4. I motivi di ricorso relativi alla valutazione del materiale probatorio, in forza del quale i Giudici di merito hanno affermato la penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato ascritto, sono inammissibili.
Le censure sollevate, in proposito, dal ricorrente non tengono conto che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell'interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. E' necessario cioè accertare se nell'interpretazione delle prove siano state applicate le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve quindi essere evidente e tale da inficiare lo stesso percorso seguito dal giudice di merito per giungere alla decisione adottata. Anche a seguito della modifica dell'art. 606 c.p.p., lett. e), con la L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell'iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all'annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr.
Cass. pen. sez. 6 n. 752 del 18.12.2006). Pur di fronte alla previsione di un allargamento dell'area entro la quale deve operare, non cambia la natura del sindacato di legittimità; è solo il controllo della motivazione che, dal testo del provvedimento, si estende anche ad altri atti del processo specificamente indicati.
Tale controllo, però, non può "mai comportare una rivisitazione dell'iter ricostruttivo del fatto, attraverso una nuova operazione di valutazione complessiva delle emergenze processuali, finalizzata ad individuare percorsi logici alternativi ed idonei ad inficiare il convincimento espresso dal giudice di merito" (così condivisibilmente Cass. pen. sez. 2 n. 23419/2007-Vignaroli).
4.1. La Corte territoriale, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, rinviando anche alla motivazione della sentenza di primo grado, ha ritenuto la piena attendibilità della versione fornita dalla persona offesa, sottolineando che tale attendibilità non poteva certo essere inficiala dalle condizioni psichiche della stessa (di cui già si è fatto cenno in ordine alla capacità a testimoniare) nè dalle iniziative legali intraprese legittimamente a tutela dei propri diritti.
Nè alcuna incidenza avevano l'esito dei giudizi civili, sia per l'autonomia degli stessi rispetto al processo penale, sia per le diverse modalità di assunzione della prova (il ricordo dei testi può essere sollecitato con il ricorso alle contestazioni ex art. 500 c.p.p., comma 3). La motivazione sul punto non è affatto generica, come assume il ricorrente, avendo, piuttosto la Corte territoriale, da un lato, rilevato che gran parte delle dichiarazioni testimoniali erano intervenute a seguito di specifiche contestazioni del P.M., e, dall'altro, indicato gli elementi di prova, acquisiti nel giudizio penale, che confermavano ab externo le dichiarazioni accusatorie della M.. Sotto tale ultimo profilo, nel rinviare alla motivazione della sentenza di primo grado, ha ribadito che significative conferme alle dichiarazioni della p.o. si ricavavano dalla testimonianza dei testi L.S.R. e P.N..
Infatti, in ordine al primo il Tribunale, dopo aver evidenziato che il teste non era portatore di alcun interesse (essendo la lunga relazione sentimentale con la parte offesa cessata nel dicembre 2008), assumeva che il L.S., oltre ad essere teste "de relato" in ordine a tutte le vessazioni subite dalla M. ed allo specifico episodio di cui alla contestazione (raccontatogli nel pomeriggio del 3 gennaio 2004) era teste "diretto" in ordine alle telefonate con il B.. Avendo appreso quanto accaduto il 30 novembre 2003 e della brutale aggressione sessuale subita dalla fidanzata, si era precipitato, sconvolto, al centro commerciale; ma, non avendo trovato l'imputato, aveva pensato di telefonargli a casa, contestandogli l'accaduto e chiedendo spiegazioni (gli veniva risposto "che lui era il direttore e dentro lì faceva quello che voleva"). Sottolineava il Tribunale che sul punto la testimonianza diretta del L.S. trovava, per di più, riscontro nei tabulati telefonici (si accertava, infatti, che quel giorno vi erano state tre telefonate in partenza dal cellulare del L.S. e dirette all'utenza fissa del B., tra le 20,34 e le 20,58, l'ultima delle quali dalla durata di otto minuti). Aggiungeva ancora il Tribunale che il L.S. aveva anche riferito, per conoscenza diretta, dello stato di sofferenza psicologica e poi di vera e propria disperazione in cui era venuta a trovarsi la donna (pag.39-40). In ordine al dr. P. rilevava il Tribunale che egli era stato sentito nella duplice veste di teste e di consulente e che aveva riferito delle sofferenze psichiche della donna e della loro genesi, nonchè delle molestie sessuali subite ("dapprima ricostruite per iscritto nel diario e successivamente ripercorse anche a parole al cospetto del dott. P." pag. 42).
Ha aggiunto, poi, la Corte che altri importanti riscontri provenivano dalle testimonianze di M.R., S.I. e C. P., rinviando anche in ordine a tali testimonianze alla completa ed esaustiva disamina operata dal Tribunale (pag. 36, 43) e precisando che particolare rilevanza assumeva anche la telefonata intercorsa nel gennaio 2004 fra la C. e la M..
La Corte territoriale ha preso in considerazione anche le testimonianze rese dagli altri dipendenti del centro commerciale, condividendo il giudizio di sostanziale inattendibilità degli stessi che erano arrivati a negare perfino l'evidenza, quale l'uso da parte dell'imputato di un linguaggio scurrile (circostanza ammessa dallo stesso B.).
A tutto ciò si aggiungeva la piena compatibilità delle modalità di tempo e di spazio della condotta, così come descritte dalla persona offesa, con lo stato dei luoghi e con i turni di servizio del giorno 30.11.2003, su cui si era già diffusamente soffermato il Tribunale (pag. 45 sent.).
Il percorso argomentativo dei Giudici di merito (è pacifico che in caso di conferma della sentenza di primo grado le due motivazioni si integrino reciprocamente), nella valutazione del materiale probatorio, è quindi completo, coerente e logico. Il ricorrente, attraverso una formale denuncia di vizi di motivazione e travisamento della prova, propone sostanzialmente una diversa lettura del materiale, attraverso peraltro il richiamo di singoli ed isolati passi delle risultanze probatorie. Quanto poi al denunciato omesso esame di singole deduzioni dell'atto di appello, è assolutamente pacifico che "Nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata" (Cass. pen. Sez. 4 n. 1149 del 24.10.2005 - Mirabilia; v. anche Cass. sez. un. n. 36757 del 2004 Rv. 229688).
5. In ordine all'invocata attenuante di cui all'art. 609 bis c.p., comma 3 questa Corte ha ripetutamente affermato che essa deve considerarsi applicabile in tutte quelle fattispecie in cui, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell'azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima (bene-interesse tutelato dalla norma) sia stata compressa in maniera non grave. Deve quindi farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, quali mezzi, modalità esecutive, grado di coartazione esercitato sulla vittima, condizioni fisiche e mentali di questa, caratteristiche psicologiche valutate in relazione all'età, così da poter ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in modo non grave, come, pure, il danno arrecato anche in termini psichici (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 5002 del 7.11.2006; Cass. pen. sez. 3 n. 45604 del 13.11.2007; Cass. sez. 3 n. 10085 del 5.2.2009).
Bisogna tener conto cioè , oltre che della materialità del fatto, di tutte le modalità della condotta criminosa e del danno arrecato alla parte lesa ovvero degli elementi indicati dall'art. 133 c.p., comma 1, ma non possono venire in rilievo gli ulteriori elementi di cui al comma secondo dello stesso art. 133, utilizzabili solo per la commisurazione complessiva della pena" (Cass. pen. sez. 3 n. 2597 del 25.11.2003).
Con motivazione pertinente ed immune da illogicità la Corte di merito ha ritenuto che non potesse trovare applicazione la circostanza attenuante del fatto di minore gravità, sia per la notevole invasività della condotta posta in essere nei confronti di una dipendente non in grado di reagire adeguatamente, sia per le gravi conseguenze psicologiche cagionate alla vittima.
Nè la motivazione sul punto può dirsi meramente assertiva, come sostiene il ricorrente. Dalla motivazione della sentenza di appello, integrata da quella della sentenza di primo grado, emergono, infatti, chiaramente le ragioni per cui la condotta posta in essere dall'imputato abbia attentato in modo grave ed invasivo alla sfera sessuale della vittima. Dalle dichiarazioni della parte offesa, della cui attendibilità viene dato ampiamente conto, emergeva, come riportato fedelmente nel capo di imputazione, che la donna fu aggredita brutalmente, sopraffatta, umiliata, il tutto accompagnato dal compiacimento di poterla dominare e sottomettere (pag. 1 sent. app. e pag. 15 sent. Trib.).
Non c'è dubbio che, ai fini della valutazione delle conseguenze psicologiche, occorra far riferimento al singolo episodio contestato e non agli altri non oggetto di contestazione. Ancora una volta, però, emerge dalle motivazioni dei giudici di merito che il fatto contestato (avvenuto il 30.11.2003) fu quello (come si è visto, di allarmante gravità ed invasività) che fece letteralmente "precipitare" la situazione. Da quel momento in poi il B. divenne sempre più aggressivo nei confronti della donna, che, nonostante il grave episodio, continuava a non cedere. Tanto che di lì a poco più di un mese fu costretta ad abbandonare il posto di lavoro (pag. 15, 16 sent. Trib.). Anche per l'immediata vicinanza temporale a tale traumatica decisione l'episodio del 30 novembre è dunque decisivo e sì pone in evidente nesso eziologico con le conseguenze psicologiche, rilevate dal dr. P. a partire dal gennaio 2004 (pag. 21 sent. Trib.).
6. Quanto alle circostanze attenuanti generiche, la Corte territoriale ha ritenuto che il comportamento vessatorio e l'assenza di qualsiasi resipiscenza connotasse negativamente la personalità dell'imputato.
Va ricordato che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non è necessaria una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente la indicazione degli elementi ritenuti decisivi e rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri.
Non è necessario, quindi, scendere alla valutazione di ogni singola deduzione difensiva, dovendosi, invece, ritenere sufficiente che il giudice indichi, nell'ambito del potere discrezionale riconosciutogli dalla legge, gli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti. Il preminente e decisivo rilievo accordato all'elemento considerato implica infatti il superamento di eventuali altri elementi, suscettibili di opposta e diversa significazione, i quali restano implicitamente disattesi e superati. Sicchè anche in sede di impugnazione il giudice di secondo grado può trascurare le deduzioni specificamente esposte nei motivi di gravame quando abbia individuato, tra gli elementi di cui all'art. 133 c.p., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell'imputato e le deduzioni dell'appellante siano palesemente estranee o destituite di fondamento (cfr. Cass. pen. sez. 1 n. 6200 del 3.3.1992; Cass. sez. 6 n. 34364 del 16.6.2010). L'obbligo della motivazione non è certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione però che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione non può, purchè congrua e non contraddittoria, essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 7707 del 4.12.2003). La Corte territoriale, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, come tale non censurabile in questa sede di legittimità, ha ritenuto che la negativa valutazione della personalità dell'imputato costituisse elemento decisivo per negare il riconoscimento dell'invocato beneficio. E a tal fine ha correttamente preso in considerazione la capacità a delinquere dell'imputato, desunta dai motivi a delinquere (art. 133, comma 2, n. 1) e dalla condotta contemporanea o susseguente al reato (art. 133 c.p., comma 2, n. 3).
Di tale condotta, caratterizzata da un crescendo di pervasività e da indifferenza verso le sofferenze della persona offesa danno, poi, ampiamente conto i giudici di merito, indicando le numerose fonti probatorie da cui hanno tratto il loro convincimento (oltre le dichiarazioni della M., le testimonianze L.S., C., M. (pag. 6 sent. app. e pag. 47 sent. Trib.).
7. Infine, non è censurabile la motivazione della sentenza impugnata neppure in relazione al rigetto della richiesta di sospensione della condanna al pagamento della provvisionale, avendo la Corte territoriale ineccepibilmente rilevato che non sussisteva un danno grave ed irreparabile e che l'irreparabilità del danno non poteva essere confusa con "le concrete difficoltà di recupero della somma nè con le precarie condizioni economiche dell'obbligato" (ed ha richiamato in proposito la giurisprudenza di questa Corte: Cass. sez. 1 n. 4380 del 26.9.1995; conf. Cass. pen. sez. 4 n. 1813 del 4.10.2005; sez. 6 n. 27886 del 26.4.2009).
8. Il ricorso deve quindi essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalla costituita parte civile e che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla costituita parte civile e che si liquidano in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori di legge.