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Cassazione: "mancato risarcimento del danno da mobbing"

Dettagli


LAVORO (RAPPORTO DI)
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-07-2012, n. 11680

Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Con distinti ricorsi (@@@) ha adito il Tribunale di Venezia impugnando le sanzioni disciplinari irrogatele il 15 ed il 23 marzo 2005, nonchè il successivo licenziamento del 9 giugno 2005.
A fondamento delle domande ha esposto di essere stata reintegrata nel posto di lavoro a seguito di provvedimento cautelare, e di essere stata successivamente sottoposta a continue vessazioni.
Ha inoltre esposto che le sanzioni disciplinari impugnate rientravano nell'ambito di una strategia aziendale diretta ad umiliarla, isolarla nel luogo di lavoro per poi espellerla definitivamente dall'azienda.
Ha quindi chiesto l'annullamento delle sanzioni conservative e del licenziamento e la condanna della resistente alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti.
La società resistente si costituiva in entrambi i giudizi contestando la fondatezza delle domande.
Riunite le cause, con sentenza del 29 aprile 2008 il Tribunale respingeva entrambe le domande.
Avverso tale sentenza ha proposto appello la M.; resisteva la società Impresa Verde Venezia.
La Corte d'appello di Venezia, con sentenza depositata il 26 ottobre 2009, respingeva il gravame.
Per la cassazione di quest'ultima propone ricorso la M., affidato a tre motivi.
Resiste la società con controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la M. denuncia una omessa o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, e cioè l'ammissibilità ed attendibilità delle testimonianze rese dai dipendenti del datore di lavoro, di cui riportava diffusamente le deposizioni, quale unico fondamento probatorio della decisione impugnata.
Si duole in sostanza la ricorrente che la Corte di merito abbia ritenuto erroneamente attendibili i testi indicati dalla datrice di lavoro, autori essi stessi dei comportamenti discriminatori denunciati.
Il motivo è inammissibile per sottoporre alla Corte un riesame delle risultanze istruttorie, chiedendone in sostanza una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità.
Deve al riguardo evidenziarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l'autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Del resto, il citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 6 marzo 2006 n. 4766; Cass. 25 maggio 2006 n. 12445; Cass. 8 settembre 2006 n. 19274; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27168; Cass. 27 febbraio 2007 n. 4500; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).
Ciò premesso deve considerarsi che è comunque inammissibile il ricorso nel quale l'esposizione sommaria dei fatti, e lo stesso vale per l'esposizione dei motivi di diritto ex art. 366 c.p.c., n. 4, sia compiuta, come nella specie, attraverso la integrale trascrizione degli atti del giudizio di merito. Tale modalità, infatti, equivale nella sostanza ad un mero rinvio agli atti di causa e viola, di conseguenza, il principio di autosufficienza del ricorso, imponendo alla Corte di enucleare le ragioni ed i fatti storici posti a fondamento del ricorso ed in tesi non correttamente valutati dal giudice di merito (cfr. Cass. sez.un. ord. n. 19255/10; Cass. n. 6279/11; Cass. n. 1716/12, Cass. n. 1905/12; Cass. sez. un. n. 5698/12).
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, e cioè la proporzionalità delle sanzioni inflitte.
Lamenta che i giudici di appello avrebbero dovuto meglio considerare che le testimonianze offerte dalla convenuta erano certamente interessate o forzate dalla necessità di conservare il posto di lavoro.
Anche tale motivo è inammissibile.
Ed invero, come sopra evidenziato, spetta unicamente al giudice del merito individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (ex plurimis, Cass. 21 luglio 2010 n. 17097).
Deve peraltro notarsi che l'inattendibilità dei testimoni, non ravvisabile di per sè nel fatto che si tratti di soggetti dipendenti del datore di lavoro (Cass. 3 febbraio 1993 n. 1341), deve essere fatta valere nelle forme previste dal codice di rito (art. 252 c.p.c.) e non risulta che la parte, che comunque nulla specifica al riguardo, vi abbia provveduto.
Quanto alla censura inerente la sproporzione della sanzione, osserva la Corte che la ricorrente si limita a richiamare taluni principi affermati da questa S.C. in ordine alla proporzionalità delle sanzioni disciplinari, senza tuttavia specificare, in contrasto col principio di autosufficienza, per quale ragione la sanzione in contestazione violerebbe il canone di cui all'art. 2106 cod. civ..
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, relativamente cioè al mancato risarcimento del danno da mobbing, valorizzando solo le deposizioni di taluni testimoni escussi e non altre, ed in ordine alla mancata ammissione dei testimoni indicati dalla ricorrente.
Anche tale motivo risulta inammissibile per richiedere alla Corte un riesame delle emergenze istruttorie, ed inoltre per non considerare che, in difetto di più specifiche censure, l'ammissione dei testi o la mancata audizione degli ulteriori testi indicati in ricorso, costituisce un potere tipicamente discrezionale del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, ed esercitabile anche nel corso dell'espletamento della prova, potendo il giudice non esaurire l'esame di tutti i testi ammessi qualora, per i risultati raggiunti, ritenga superflua l'ulteriore assunzione della prova. Tale ultima valutazione non deve essere necessariamente espressa, potendo desumersi per implicito dal complesso della motivazione della sentenza (Cass. 22 aprile 2009 n. 9551).
La ricorrente inoltre, in contrasto col principio di autosufficienza, neppure indica quali testi e su quali circostanze il giudice d'appello avrebbe omesso di ammettere la prova.
4. Il ricorso principale deve pertanto dichiararsi inammissibile, restando così assorbito quello incidentale.
Le spese di causa seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso principale ed assorbito quello incidentale.
Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 40,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..



   

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