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Polizia di Stato"..reiterati atti e comportamenti vessatori idonei a costituire "mobbing"...

Dettagli

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RESPONSABILITA' CIVILE
T.A.R. Lazio Roma Sez. I ter, Sent., 02-07-2012, n. 6008

Fatto Diritto (@@@)Q.M.
Svolgimento del processo
Il ricorrente - ex Assistente capo della Polizia di Stato ( di seguito: (@@@)S.) - ripercorre, nella narrativa del ricorso in epigrafe, le tappe del suo percorso professionale a partire dall'assunzione presso la (@@@)S. sino al trasferimento, su sua domanda, presso il Comm.to della (@@@)S. di (@@@), diretto dal dott. (@@@), ove è stato preposto sino al Giugno 2001 all'Ufficio di Polizia Giudiziaria. Questa prima fase della sua carriera, impreziosita anche da onorificenze e benemerenze (due encomi semplici e diverse lodi) nonché dal riconoscimento del massimo punteggio e del più elevato in giudizio (Ottimo) in sede di Rapporto Informativo per l'anno 2000, è stata, di fatto, interrotta a partire dal 07.6.2001: data sotto la quale la nuova dirigente del Commissariato, animata dall'intento di punirlo in quanto "schieratosi dalla parte sbagliata sotto la gestione (@@@)", lo assegnava all'Ufficio Emergenza e Pronto Intervento ( di seguito Epi) e dunque ad incarico meno qualificante e certamente non consono a dipendente in possesso del suo significativo stato matricolare.
Assume il ricorrente che a partire da tale momento è stato destinatario da parte dell'amministrazione di appartenenza ( e segnatamente da parte della dirigente), di reiterati atti e comportamenti vessatori idonei a costituire "mobbing". E così:
- gli è stato ordinato di utilizzare quale volante una vettura con oltre 200.000 Km e non blindata;
- gli è stata negata la possibilità di fare straordinari;
- non sono state accolte le sue istanze di essere assegnato presso il "Sisde" ( e cioè i Servizi di sicurezza nazionali) ovvero a compiti "nel campo del terrorismi internazionale", settore in cui, a suo avviso, vantava annosa esperienza;
- gli è stato ordinato, nel dicembre 2001, di rientrare (da servizio esterno) d'urgenza in Commissariato al fine di recapitare lettere di "auguri per le festività natalizie";
- è stato avviato nei suoi confronti un (primo) procedimento disciplinare poi, "puntualmente, archiviato".
- sono state disattese ulteriori sue "richieste mensili" di assegnazione ad altri uffici;
- non ha ricevuto riconoscimenti, pur a fronte di atti meritevoli (come quando ha salvato la vita ad un collega colpito da infarto durante un'attività di pattugliamento).
In detto contesto - connotato da una situazione professionale deprimente "e senza via d'uscita" - lo stesso ricorrente ammette di aver "perso la testa", determinandosi così, unitamente ad altro collega del Commissariato, ad inscenare, al fine di conseguire una promozione sul campo, per meriti straordinari, un conflitto a fuoco con malviventi in fuga: condotta questa che gli ha comportato, oltre ad un periodo di carcerazione in un istituto di pena, sette mesi di detenzione domiciliare e la destituzione dal servizio con provvedimento del Capo della Polizia del 24.5.2004 (impugnato nello stesso anno con altro atto di ricorso e la cui istanza cautelare, respinta da questa Sezione con Ordinanza n.6221 del 25.11.2004 non risulta essere stata appellata).
Il "gravissimo ed illegittimo demansionamento" subito con l'assegnazione all'Ufficio EPI, le continue vessazioni subite unitamente al mancato riconoscimento dei propri meriti, sono state - ad avviso del ricorrente - le cause (addebitabili all'amministrazione e) scatenanti la condotta dianzi sintetizzata; per l'effetto egli chiede, con l'atto introduttivo dell'odierno giudizio:
- quale "danno alla professionalità" un risarcimento che quantifica in Euro60.000,00;
- l'annullamento del provvedimento destitutorio, con conseguente riammissione in servizio, ed un risarcimento, correlato a detta s(@@@)ne di stato, pari a tutte le retribuzioni che avrebbe percepito dal giorno della decorrenza della destituzione alla data della sua riammissione in servizio;
- quale danno "biologico", un risarcimento che quantifica in Euro120.000,00;
- quale danno "morale" un risarcimento che quantifica in Euro60.000,00;
- quale danno "esistenziale" un risarcimento che quantifica in Euro540.000,00;
- a titolo di danno "all'immagine" una misura la cui quantificazione è demandata "anche in via equitativa" al Giudicante al pari del risarcimento di "qualunque ulteriore danno comunque connesso ai fatti di ricorso".
L'intimata amministrazione, costituitasi in giudizio per il tramite del Pubblico Patrocinio, ha prodotto, oltre ad una breve memoria, documenti d'Ufficio inerenti la posizione lavorativa del ricorrente.
Non si è costituita in giudizio d.ssa (@@@)
All'udienza del 14 giugno 2012 la causa è stata trattenuta per la relativa decisione.
Motivi della decisione
I)- La lettura del complesso ricorso in epigrafe induce ad una preliminare riflessione.
Nel gravame, invero, senza approfonditamente specificare il tipo di azione proposta, parte ricorrente ricorda che il danno derivante da mobbing e da esso subito è fonte tanto di responsabilità extra contrattuale (a norma dell'art.2043 del cod. civ). quanto di responsabilità contrattuale, tenuto conto dell'obbligo del datore di lavoro, riconducibile all'art.2087 del cod. civ., di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei datori di lavoro.
Tale essendo l'implementazione del gravame occorre ricordare, in primo luogo, che, anche con riguardo ai dipendenti cc.dd. non contrattualizzati ( come nel caso di specie), la Corte regolatrice ha specificato che, ai fini del riparto di giurisdizione, assume valore determinante l'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità in concreto proposta in quanto solo l'azione per responsabilità contrattuale è ritenuta rientrante nella cognizione del Giudice amministrativo mentre deve ritenersi di competenza dell'A.g.o. l'azione proposta in via extracontrattuale (cfr. Cass. ss. uu. nn.22101 e 2507 del 2006; e in analogo senso nella giurisprudenza amministrativa Cons.St. n.2515 e 1739 del 2008; idem n.4825 del 2007).
Sennonché nel caso di specie, rispetto alle condotte evocate quali rappresentative del disegno unitario vessatorio e persecutorio ( e quindi mobizzante) della (@@@)a., il rapporto di lavoro non rappresenta un mero presupposto estrinseco ed occasionale della tutela invocata (il che verrebbe a legittimare la richiesta risarcitoria a titolo di responsabilità extracontrattuale); invero qui la tutela attiene a diritti soggettivi (recte: interessi legittimi) derivanti direttamente dal medesimo rapporto, che si assumono lesi da comportamenti che rappresentano l'esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione non solo del principio di protezione delle condizioni di lavoro, ma anche della tutela della professionalità prevista dall'art. 2103 cod. civ. La fattispecie di responsabilità va così ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti dalle norme in materia di (@@@)i., indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell'ambito del rapporto obbligatorio. (cfr., per una fattispecie analoga, Cass.ss.uu. n.8438 del 2004).
II) - Tanto premesso e chiarito, ai fini del merito del gravame possono svolgersi le seguenti considerazioni.
II.1)- Per "mobbing" (da lavoro), secondo la giurisprudenza si intende "una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotti con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile" (Trib.civ. Milano 15.5.2006) ovvero per usare le parole della Suprema Corte, "l'insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. Sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata - procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa" (Cass. civ, lav., 6 marzo 2006, n. 4774; 9 settembre 2008, n. 22858; 17 febbraio 2009, n. 3785). In sostanza, la condotta mobbizzante si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. L'accertamento della sussistenza del danno da mobbing, quindi, comporta una valutazione complessiva dei danni lamentati dall'interessato, i quali devono essere considerati in modo unitario, tenuto conto, da un lato dell'idoneità offensiva della condotta datoriale, come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione e, dall'altro, dalla connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta; pertanto la ricorrenza di una condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo, o imprenditoriale, nel caso del lavoro privato; o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (cfr. Cons. Stato, VI, 6 maggio 2008, n. 2015);
- tutte le volte che la valutazione complessiva dell'insieme delle circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminatorio nei confronti del singolo dal complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (cfr. Cons.St.nr. 4738 del 2008).
È stato da ultimo messo in risalto che il tratto strutturante del "mobbing" - tale da sottrarlo all'area dei comportamenti che sarebbero confinati nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro - è proprio la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa. Pertanto, in ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (cfr. TAR Lombardia, Milano, I, 11 agosto 2009, n 4581; T.A.R. Lazio, Roma, III, 14 dicembre 2006, n. 14604). In altri termini, il mobbing - proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo - non può essere imputato in via esclusiva ma anche prevalente al vissuto interiore del soggetto, ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, I, 7 aprile 2008 , n. 2877).
D'altra parte, come è stato condivisibilmente affermato (cfr. Tar PG nr.469 del 2010), nell'esaminare i casi di preteso "mobbing" il Giudice deve evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima. Da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica (per tacere dell'ipotesi, non scartabile a priori, che la rappresentazione delle sofferenze sia inveritiera e meramente strumentale allo scopo di supportare una domanda di risarcimento). Da un altro lato, è possibile che gli atti del datore di lavoro (di nuovo, pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati e in particolare che abbiano una certa giustificazione o quanto meno spiegazione siccome indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve cioè sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato. Tale ipotesi può anzi essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale.
Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando, come nel caso in esame, l'ambiente di lavoro è un Corpo di Polizia, caratterizzato, per definizione, da una severa disciplina e dove non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate. In questa situazione, un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai fuorviante.
Dunque, gli elementi strutturali della condotta mobizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
Ai fini risarcitori è quindi necessaria:
- la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cassazione Sez. L, Sentenza n. 3785 del 17/02/2009);
- la prova del danno all'integrità subito;
- che sia dimostrato il nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato di prostrazione (cfr, ex plurimis, Cass.civ. III^, 16148/2010).
Rebus sic stantibus, una volta ricondotta la controversia risarcitoria in questione nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 cod. civ., la distribuzione dell'onere probatorio fra il prestatore (asseritamente) danneggiato ed il datore di lavoro deve essere operata in base al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro - in base al principio di inversione dell'onus probandi di cui al richiamato art. 1218 cod. civ. - il solo onere di provare l'assenza di una colpa a se riferibile (in tal senso, ex plurimis: Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. 25 maggio 2006, n. 12445; id., Sezione Lav., sent. 8 maggio 2007, n. 10441). Ne consegue che laddove, quindi, il lavoratore ometta di fornire la prova anche solo, ad es., in ordine alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie oggettiva (id est: della complessiva condotta mobbizzante asseritamente realizzata in proprio danno sul luogo di lavoro), difetterà in radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno (e del conseguente obbligo risarcitorio), con l'evidente conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, irrilevante essendo, in tal caso, ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso. (cfr., in tal senso, Cons. St. nr.2045 del 2010 e nr. 4738 del 2008).
II.2)- Ora l'impianto del ricorso non offre alcuna compiuta dimostrazione di un tale disegno persecutorio. Per converso gli atti depositati dalla (@@@)a. rendono conto di una realtà lavorativa che collide con le valutazioni formulate dal ricorrente favorendo il convincimento che l'assunta condotta mobizzante della (@@@)a. possa trovare giustificazione in comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero in sue singolarità caratteriali ovvero, ancora, nella sussistenza di mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo. Altrimenti detto la rappresentazione che il ricorrente offre della condotta dell'amministrazione nella seconda parte della sua carriera (che è quella che si avvia a partire dal periodo connotato dall'assunzione della direzione del Commissariato di (@@@) dalla d..sa (@@@)) non consente di cogliere la presenza di sistematici e reiterati comportamenti ostili animati da un comune intento persecutorio volto a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa. E difatti:
- anche durante "la gestione (@@@)" il rendimento professionale del ricorrente è stato valutato col massimo punteggio (ved. Rapporti informativi anni 2001, 2002 e 2003): circostanza questa significativa che consente di collocare nella giusta dimensione il rapporto, anche se (come sostiene il ricorrente) non alieno da tratti di conflittualità, tra il dipendente e tale dirigente favorendo l'emersione, in capo a quest'ultima, di una personalità non aprioristicamente prevenuta nei confronti del primo ma capace sia di denunciarne le carenze che di valutarne i meriti;
- il ricorrente, durante il periodo di servizio espletato presso il Commissariato di (@@@), è stato assegnato dal 28.12.1995 al 21.4.1996 all'Ufficio EPI; dal 22.4.1996 al 6.9.1997 all'Ufficio di Polizia giudiziaria; quindi, dall'8.9.1997 sino al 22.3.1998 nuovamente all'Ufficio Epi; dal 23.9.1998 al 7.6.2001 all'Ufficio di (@@@)G. e dall'8.6.2001 al 7.2.2004 all'Ufficio Epi. Quindi nel servizio svolto dal ricorrente al Commissariato di (@@@) l'assegnazione all'Ufficio EPI si è intervallata con quella all'Ufficio di (@@@)G.; e tanto, essendosi verificato anche sotto la direzione di altri dirigenti che hanno preceduto la d.ssa (@@@) insediatasi al vertice di detto Commissariato solo nell'anno 2001, smentisce l'assunto di parte attrice laddove sembra sostenere di essere stato impiegato, senza soluzione di continuità ( "appena trasferito presso il Commissariato di (@@@) è stato subito assegnato all'Ufficio di (@@@)g. dove ha operato sino la giugno 2001": così pag.3 gravame), esclusivamente nell'ambito dell'Uffici di (@@@)g. Il tutto, poi, non senza sottacere che:
a) il Provv. del 7 giugno 2001 della d.ssa (@@@) è un Ordinanza di servizio che, al fine di assecondare le esigenze ivi prospettate, provvede alla ridislocazione presso i vari Uffici interni di tutto il personale del Commissariato. Si tratta di varie decine di dipendenti; e dunque il convincimento che detto atto, di chiara natura organizzativa, sia stato dettato dall'intento di vessare il ricorrente appare, realisticamente, poco plausibile;
b) non è dato cogliere, e sono rimaste del tutto indimostrate, le ragioni per le quali parte ricorrente configura l'assegnazione all'Ufficio EPI come un demansionamento delle attribuzioni proprie della qualifica di appartenenza;
- contrariamente a quanto assunto dal ricorrente (che addebita alla (@@@) di aver avviato un procedimento disciplinare con una denuncia di sfruttamento della prostituzione a suo carico), la sua posizione di indagato in un processo (non disciplinare, ma penale) per concorso per favoreggiamento della prostituzione trova riscontro in una relazione di servizio allegata dalla resistente amministrazione; mentre di un procedimento disciplinare sfociato nel "richiamo scritto" nei confronti del ricorrente per avere tenuto un comportamento irriguardoso nei confronti di un superiore gerarchico (diverso dalla (@@@)), ne dà atto il provvedimento del Questore del 18.6.2004, allegato alla produzione della resistente;
- altri documenti esibiti dalla (@@@)a. testimoniano di altro procedimento penale intentato nei confronti del ricorrente per violazione degli artt.609, 479 e 368 del c.(@@@), il cui esito si sconosce; nonché testimoniano della richiesta di avvio di altro procedimento disciplinare per avere il ricorrente indebitamente trattenuto, presso la propria abitazione, una pistola (diversa da quella di ordinanza) temporaneamente consegnatagli dall'Ufficio per le esigenze di controllo del territorio.
Dunque, e conclusivamente la prospettazione di parte ricorrente di un unitario disegno persecutorio difetta, in radice, di uno dei suoi elementi costitutivi. L'assunta ricorrenza di una condotta amministrativa dotata di un'idoneità offensiva e con connotazione emulativa e pretestuosa viene, insuperabilmente, a cozzare con gli elementi di giudizio sopra rassegnati che depongono per l'infondatezza del gravame.
E' poi solo il caso di aggiungere che la domanda di annullamento del provvedimento destitutorio è inammissibile in quanto trattasi di provvedimento già gravato con distinto e precedente ricorso, in atto sub iudice.
II)- Le spese di lite, attesa la peculiarità della controversia, possono compensarsi tra le parti in causa.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter) respinge il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

   

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