Impiego pubblico - demansionamento e mobbing

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Categoria: Sentenze - Ordinanza - Parere - Decreto
Creato Mercoledì, 23 Novembre 2011 11:15
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IMPIEGO PUBBLICO
T.A.R. Lombardia @@ Sez. III, Sent., 30-05-2011, n. 1374
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo
 
Il Sig. @@ afferma di prestare servizio presso la Polizia di Stato dal 1989 ed essere assegnato al Commissariato "@@" di @@ dal 2003 come addetto al servizio "volanti".
L'attività svolta dal ricorrente sarebbe stata sempre positivamente valutata ed oggetto di encomi da parte dell'Amministrazione fino a quando egli ebbe a scontrarsi con un suo diretto superiore, l'Ispettore @@, a causa dell'accompagnamento in commissariato di un sedicente "amico" dello stesso di cui l'Ispettore, nel corso di una telefonata, gli aveva intimato l'immediato rilascio.
L'episodio, avvenuto nel novembre 2006, segnò la carriera del @@ che fu prima assegnato ad un servizio di volante diverso e meno impegnativo e poi all'Ufficio Denunce.
Da allora, inoltre, fu preso di mira dal superiore il quale segnalò più volte al Questore sue presunte condotte inadempienti agli ordini di servizio per le quali fu sottoposto a due procedimenti disciplinari uno conclusosi con l'archiviazione e l'altro con la ingiusta comminazione di una lieve sanzione pecuniaria.
Le vessazioni subite inducevano il @@ a denunciare l'Ispettore @@ presso l'A.G. per l'episodio occorso nel novembre 2006.
Dopo la presentazione della predetta denuncia egli veniva trasferito all'Ufficio Archivio con decorrenza 22/07/2007 con depauperamento delle proprie mansioni e conseguente perdita della professionalità acquisita.
Anche presso il nuovo Ufficio il ricorrente veniva sottoposto a pesanti vessazioni da parte dell'Ispettore @@ che in una occasione lo apostrofò innanzi ai colleghi per il fatto che egli si era assentato per pochi minuti per andare a bere un caffè e in altre occasioni lo fece addirittura seguire da un collega per controllare se egli si fosse effettivamente assentato per recarsi in bagno.
Il @@ riconduce i predetti episodi alle fattispecie del demansionamento e del mobbing.
A seguito del trasferimento all'Ufficio Archivio agli avrebbe completamente perduto il patrimonio di professionalità acquisito in anni di servizio operativo e, comunque, tale assegnazione avrebbe determinato lo svolgimento di compiti di rilevanza inferiore a quelli pertinenti alla qualifica di assistente nella quale egli risulta inquadrato ai sensi della L. n. 36 del 1981.
Inoltre, il demansionamento si inserirebbe in un più ampio quadro di vessazioni atte a sminuire la dignità del dipendente ed a svilirne l'immagine di fronte ai colleghi che avrebbe assunto i connotati di un vero e proprio mobbing compiuto ai suoi danni.
Si è costituita l'Avvocatura Distrettuale per resistere al ricorso.
All'Udienza del 14 aprile 2011, sentiti gli avvocati delle parti come da separato verbale, relatore Dr. -- il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione
 
Il ricorso è infondato.
Quanto alla richiesta del danno derivante dall'asserito demansionamento il Collegio deve innanzitutto osservare che il ricorrente non ha offerto sufficienti elementi per dimostrare che le mansioni presso l'Ufficio Archivio alle quali egli è stato assegnato abbiano effettivamente un contenuto inferiore a quelle precedentemente svolte, non essendo sufficiente sul punto affermare che si tratti di compiti privi di carattere operativo.
L'oggettiva diversità dei compiti a cui il dipendente viene assegnato, infatti, non integra, di per sé un illecito, rientrando lo jus variandi nell'ambito dei poteri che il datore di lavoro pubblico e privato dispone per una migliore organizzazione della forza lavoro.
Inoltre, contrariamente a quanto avviene nell'impiego privato, in cui la legittimità nell'esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro deve essere riguardata con riguardo all'equivalenza delle mansioni da ultimo assegnate con quelle "ultime effettivamente svolte" (art. 2103 c.c.), nell'ambito del pubblico impiego è sufficiente che le nuove mansioni rientrino nei compiti propri della qualifica e del profilo cui il dipendente risulta inquadrato nell'ambito dell'Amministrazione di appartenenza (TAR Liguria 25/12/2005 n. 1781).
Le allegazioni del ricorrente non consentono di operare un simile raffronto in quanto nulla dicono in ordine ai compiti svolti dal @@ presso l'Ufficio Archivio limitandosi a sottolineare il fatto che si trattasse di mansioni diverse da quelle di pattuglia da esso in precedenza svolte.
Diversa è la questione relativa alla illegittimità del provvedimento che ha disposto il mutamento di mansioni sotto profili prettamente pubblicistici come il mancato avviso di avvio del procedimento o l'eccesso di potere per sviamento che, pure, viene sollevata con il ricorso, seppure ai soli fini risarcitori.
A riguardo il Collegio deve osservare che la deduzione di tali profili non è stata svolta attraverso una rituale impugnativa del provvedimento che si assume lesivo ma viene effettuata ai soli fini risarcitori.
Viene, quindi in considerazione la questione della cd. pregiudizialità amministrativa che, alla stregua di quanto recentemente affermato dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n, 3 del 2011, deve essere affrontata, anche nei giudizi pendenti, secondo le indicazioni provenienti dal nuovo codice del processo amministrativo.
La nuova disciplina processuale, pur avendo abbandonato la cd. pregiudiziale amministrativa nella sua versione rigida che escludeva la risarcibilità del danno provocato dal provvedimento illegittimo ogniqualvolta questo non fosse stato tempestivamente impugnato, ha comunque imposto al privato un onere di diligenza e collaborazione consistente nell'esperimento preventivo di tutti gli strumenti di tutela idonei ad evitare il prodursi del danno, considerando il suo mancato assolvimento come un fattore escludente il rapporto di causalità fra illecito e conseguenze di ordine patrimoniale e non patrimoniale.
Il giudizio relativo all'incidenza causale del comportamento del ricorrente non è, peraltro, rigido, dovendo il g.a. tenere conto di tutte le circostanze di fatto e del comportamento complessivo delle parti, ivi compreso quello della p.a., successivo alla verificarsi del fatto illecito. Ciò consente di apprezzare ai fini risarcitori anche situazioni in cui la p.a., pur essendo stata resa edotta nel termine decadenziale di 120 giorni della illegittimità dei propri atti e dei danni da essi causati, ha comunque rifiutato di procedere essa stessa a rimuovere le conseguenze dannose attraverso l'esercizio dei propri poteri di autotutela, soprattutto nei casi in cui il carattere evidente dei vizi denunciati unitamente alla rilevanza dei danni prodotti rendano ingiustificabile un simile rifiuto.
Nel caso di specie, tuttavia, il ricorrente non ha contestato l'atto di trasferimento in sede giudiziale né ha formulato espresse istanze di annullamento in sede stragiudiziale (tale non può essere considerata la lettera in data 16/01/2008) con la conseguenza che non possono essere risarciti i danni consistenti nelle indennità connesse alle pregresse funzioni di cui egli non ha più beneficiato, trattandosi di pregiudizi che egli avrebbe potuto evitare attraverso l'esercizio dei doveri di diligenza sopra menzionati.
Con riguardo alla domanda di restituzione della somma addebitatagli dall'Amministrazione a titolo di sanzione, il principio della pregiudiziale deve essere, invece, applicato in modo rigido poiché la domanda formulata equivale in tutto e per tutto alla richiesta di eliminazione degli effetti del provvedimento di irrogazione della sanzione pecuniaria che avrebbe dovuto essere formulata attraverso la proposizione tempestiva della azione di annullamento.
La mancata impugnazione del trasferimento e della sanzione pecuniaria non preclude, invece, l'esame del lamentato danno da mobbing il quale concreta una forma di illecito che non si esaurisce nella semplice emanazione di provvedimenti amministrativi ma in un complessivo atteggiamento volto a penalizzare la personalità del lavoratore attraverso una serie coordinata di condotte che possono consistere anche in semplici comportamenti.
Tuttavia la prova testimoniale dei diversi comportamenti con cui superiori del ricorrente avrebbero posto in essere l'allegato mobbing è stata chiesta dal ricorrente solo all'udienza di discussione.
Il Collegio ritiene che in tale sede fosse preclusa al ricorrente la facoltà di formulare una siffatta istanza.
Invero, il codice del processo amministrativo prevede che la prova testimoniale, a differenza degli altri mezzi istruttori, possa essere disposta solo ad istanza di parte (art. 63 comma 3) ma nulla dispone in ordine al momento ultimo in cui siffatta istanza può essere presentata.
Ciò genera delicati problemi interpretativi.
Infatti, la regola secondo cui i termini processuali debbono normalmente ritenersi ordinatori (salvo puntuale previsione di legge) e il fatto che, anche oggi, il processo amministrativo non preveda alcuna distinzione fra la fase istruttoria e quella decisoria, essendo entrambe concentrate nell'udienza di discussione del ricorso, farebbero propendere per l'ammissibilità dell'istanza di prova per testi anche all'udienza di discussione.
Tuttavia sembrano al Collegio decisivi gli elementi che militano per la soluzione contraria.
L'impianto del nuovo codice sembra, infatti, presupporre che prima della udienza di discussione le parti abbiano già esercitato le proprie facoltà relative alla allegazione ed alla prova dei fatti.
In tal senso milita la norma secondo cui esse possono produrre i documenti entro quaranta giorni prima della udienza di discussione e le memorie entro 30 e 20 giorni prima di tale data (art. 73 comma 1) e soprattutto la disposizione secondo cui nella predetta udienza è consentita solo una discussione espressamente qualificata dal codice come "sintetica" (art. 73 comma 3) proprio sul presupposto che la trattazione del ricorso sia già compiutamente avvenuta per iscritto.
A ciò si aggiunga che la capitolazione della prova e la indicazione dei testi in udienza comporterebbe la necessità di rinviare la trattazione del ricorso tutte le volte che controparte chieda di poter controdedurre (essendo a tal fine necessario consultare il cliente sulle circostanze dedotte anche per il reperimento dei testi da citare a controprova), con conseguente allungamento dei termini processuali che, invece, la disciplina del nuovo codice ha voluto mantenere contratti prevedendo che l'udienza di discussione debba essere preceduta da una trattazione scritta.
Peraltro, alla irrituale deduzione della prova testimoniale non può sopperire il giudice attraverso l'esercizio dei suoi poteri officiosi.
Ciò non si desume solamente dal dato letterale del comma 3° dell'art. 63 del codice (che isolatamente considerato potrebbe apparire come il risultato di un permanente sfavore avverso la prova per testi) ma dall'intero impianto del sistema probatorio da esso previsto.
La nuova disciplina processuale prevede, infatti, che l'intervento officioso del g.a. nell'istruzione della causa non debba sovrapporsi all'onere della prova che è posto a carico delle parti (art. 63 comma 1) e debba riguardare solo l'acquisizione di documenti ed informazioni che siano nella disponibilità della p.a. (art. 64 comma 3).
Ne consegue che l'esercizio officioso dei poteri istruttori del g.a si giustifica solo nei casi i cui la prova dei fatti allegati possa raggiungersi solo attraverso l'acquisizione di documenti o informazioni che sono nella esclusiva disponibilità di una p.a., mentre ove si tratti di documenti di cui il ricorrente può entrare in possesso senza la collaborazione della p.a. o di circostanze non documentate e provabili a mezzo testi (che, in base alle conoscenze della parte hanno assistito all'episodio che si intende provare), sul privato grava in pieno l'onere della prova (non essendo sufficiente un semplice principio di prova).
Nel caso di specie i fatti indicati dal ricorso e dai documenti ad esso allegati riguardavano episodi di vita non raccolti in documenti amministrativi in possesso della p.a. e di cui il @@ avrebbe potuto dare prova chiamando a testimoniare le persone che vi hanno assistito, peraltro da lui ben conosciute.
L'irrituale esercizio di tale facoltà comporta che le allegazioni fattuali riguardanti il mobbing, asseritamente posto in essere dall'Amministrazione avverso il ricorrente, non possano ritenersi provate.
Anche la domanda risarcitoria al riguardo formulata dal ricorrente deve, pertanto essere respinta.
La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.
 
Il Tribunale Amministrativo regionale per la Lombardia, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Compensa le spese di lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.