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presunte frequentazioni con ambienti malavitosi e soggetti di criminalità organizzata

Dettagli

 N.  131/11   Reg.Dec

.

N.     444     Reg.Ric.

ANNO  2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
     Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, ha pronunciato la seguente
D E C I S I O N E
sul ricorso in appello n. 444/2010 proposto da
#################### ####################
rappresentato e difeso dagli avv.ti ####################- quest’ultima;
c o n t r o
il MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, presso i cui uffici in via A. De Gasperi n. 81, è ex lege domiciliato;
- il CONSIGLIO PROVINCIALE DI DISCIPLINA DELLA QUESTURA DI REGGIO CALABRIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio;
per l’annullamento
della sentenza del T.A.R. per la Sicilia - sezione staccata di Catania (sez. III) - n. 1295/09 del 14 luglio 2009.
     Visto il ricorso con i relativi allegati;
     Vista la memoria depositata il 25 maggio 2010, per il Ministero appellato;
     Vista la memoria depositata il 17 giugno 2010, nell’interesse dell’appellante;
     Visti tutti gli atti della causa;
     Relatore il Consigliere Pietro Ciani;
     Uditi alla pubblica udienza del 29 giugno 2010 l’avv. G. Condorelli per il ricorrente e l’avv. dello Stato Ciani per il Ministero appellato;
     Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
F A T T O
     #################### ####################, già dipendente della Polizia di Stato, tratto in arresto nel 1994 per fatti commessi con presunte frequentazioni con ambienti malavitosi e soggetti di criminalità organizzata, veniva sospeso dal servizio in via cautelare il 24.2.1994.
     Tuttavia, veniva assolto dal Tribunale di Catania con sentenza del 27.2.1997, confermata dalla Corte d’Appello di Catania con sentenza n. 983/01, divenuta irrevocabile il 18.12.2001.
     Nel frattempo, era cessato dalle sue funzioni in data 11.12.1998 per inidoneità da inabilità fisica.
     Con decreto del Capo della Polizia n. 333-D/0165677 del 14.2.03, gli veniva inflitta la sanzione disciplinare della destituzione ai sensi dell’art. 7 del D.P.R. n. 737/81 per effetto delle circostanze fattuali emerse dalla sentenza della Corte di appello di Catania - sez. III penale, n. 983/01 del 3.10.2001, pubblicata il 24.10.01 e divenuta irrevocabile il 18.12.2001.
     Con detto provvedimento espulsivo veniva, altresì, disposto che il periodo di sospensione cautelare dal servizio, dallo stesso subito dal 24.2.94 al 26.5.97 (il giorno successivo, infatti, era stato riammesso in servizio, a seguito della sentenza di assoluzione in data 27.2.97) non fosse da considerare ai fini giuridici, economici, di quiescenza e di previdenza.
     Avverso tale provvedimento proponeva ricorso al T.A.R. Catania, deducendo le seguenti censure:
1) Improcedibilità dell’azione disciplinare per violazione, falsa interpretazione e mancata applicazione dell’art. 9, comma 6, del D.P.R. n. 737/1981. Ritardata contestazione degli addebiti - Eccesso di potere;
2) Improcedibilità dell’azione disciplinare per violazione, falsa interpretazione ed omessa applicazione dell’art. 653 c.p.p. - Violazione del giudicato penale - Eccesso di potere;
3) Illegittimità del provvedimento disciplinare sotto il profilo economico, per violazione, falsa interpretazione e mancata applicazione dell’art. 97 del D.P.R. n. 3/1957 e successive modifiche - Eccesso di potere;
4) Illegittimità del provvedimento disciplinare per violazione, falsa interpretazione ed erronea applicazione degli artt. 1, 7 e 13 del D.P.R. n. 737/81 - Violazione del principio di gradualità della sanzione disciplinare - Eccesso di potere per insufficienza della motivazione.
     L’Amministrazione intimata contestava la fondatezza dell’im-pugnativa, insistendo per il suo rigetto.
     Con sentenza n. 1295/09, il T.A.R. adito, ritenendo infondate le censure dedotte, rigettava il ricorso.
     Con l’appello in epigrafe, l’odierno ricorrente, sostanzialmente riproponendo le censure dedotte in primo grado, ha chiesto che l’ap-pello venga accolto e, per l’effetto, annullata la sentenza impugnata.
     Ha replicato il Ministero intimato per chiedere il rigetto dell’ap-pello.
     Con ulteriore memoria depositata il 17 giugno 2010, parte appellante ha insistito per la improcedibilità dell’azione disciplinare, essendo scaduto il prescritto termine di 40 giorni entro cui doveva essere avviata.
     Alla pubblica udienza del 29 giugno 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.
D I R I T T O
     L’appello è infondato e, pertanto, va respinto.
     L’odierno ricorrente ha eccepito che la contestazione degli addebiti, mossa nei suoi confronti dalla Questura di Reggio Calabria, sarebbe avvenuta tardivamente, perché promossa oltre il termine di 40 giorni dalla notifica della sentenza all’Amministrazione.
     Invero, conformemente a quanto deciso da questo C.G.A. con sentenza n. 552 del 4.7.07 - relativa ad un altro dipendente della Polizia di Stato coinvolto nella medesima vicenda penale definita con la citata sentenza della Corte di appello di Catania - “nel caso in questione andava applicata la disposizione di cui all’art. 9 della Legge 7.2.1990 n. 19 e non già l’art. 9 del D.P.R. n. 737/81, come peraltro da giurisprudenza prevalente (C.S. IV, 9.8.97 n. 785 e 14.3.03 n. 1933, T.A.R. Piemonte, I, n. 796/19.11.97, T.A.R. Sicilia, Palermo, II, 14.3.03 n. 351 e T.A.R. Campania, I, n. 12825 del 16.10.2003), e quindi utilizzato il termine di giorni centottanta dalla data in cui l’Am-ministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile.
     Del resto, anche a voler ritenere che la norma dell’art. 9 della Legge n. 19/90, nonostante la sua portata estensiva a tutto il settore del pubblico impiego, non abbia modificato la precedente disposizione dell’art. 9, 6°comma, del D.P.R. n. 737/81, parimenti, ove si adotti una lettura coordinata e finalizzata della stessa, si perverrebbe ad identica soluzione”.
     L’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, dispone, infatti, che il termine per l’esercizio dell’azione disciplinare incomincia a decorrere dalla data in cui l’Amministrazione abbia avuto conoscenza dell’irrevocabilità dell’azione penale.
     Inoltre, dall’art. 9, comma 6, del D.P.R. n. 737/1981, invocato dall’appellante, si evince che il procedimento disciplinare va avviato entro il termine di 120 giorni dalla data di notificazione della sentenza all’Amministrazione.
     Nel caso di specie, la sentenza della Corte d’appello di Catania, di cui sopra, è divenuta irrevocabile il 18.12.2001 e la contestazione degli addebiti all’odierno ricorrente, essendo avvenuta l’8 marzo 2002, risulta, quindi, effettuata entro il prescritto termine di 120 giorni.
     D’altra parte, va precisato, alla stregua di quanto affermato dal Giudice di prime cure, che nella specie non può trovare applicazione il termine breve di giorni quaranta dalla data di notificazione della sentenza all’Amministrazione, di cui al combinato disposto delle norme contenute nel titolo II, capo I, del citato D.P.R. n. 737/81, poiché, in assenza di idonea prova al riguardo da parte del ricorrente, è stato accertato, tramite l’O.C.I. n. 3/08 emessa dal T.A.R. nel giudizio di primo grado, che detta sentenza non risulta notificata all’Amministra-zione.
     Inoltre, come già osservato da questo C.G.A. con la decisione n. 552/07, sopra richiamata, l’assunto dell’appellante “risulta pretestuoso tenuto conto che laddove si tratti di sentenza penale di assoluzione dai reati ascritti, ma non per questo dagli illeciti amministrativi, come nel caso esaminato, la P.A. procedente deve avere - anche nell’interesse del dipendente e per il rispetto del suo diritto di difesa nell’ambito del procedimento disciplinare - piena ed integrale conoscenza dei fatti esaminati dal giudice penale, nonché degli apprezzamenti e delle valutazioni da quest’ultimo compiuti, il ché è possibile con la conoscenza integrale della sentenza penale e quindi dal suo deposito.
     Ma è evidente che né il deposito stesso, né il rilascio di copia della sentenza “per uso ufficio” possono integrare in senso tecnico - giuridico gli estremi di una ipotetica notifica, trattandosi di adempimenti distinti e diversi sia in termini generali e di principio che con riferimento all’art. 9 del D.P.R. n. 737/1981”.
     Con il secondo motivo di ricorso, l’odierno appellante ha dedotto l’improcedibilità dell’azione disciplinare per violazione, falsa interpretazione ed omessa applicazione dell’art. 653 c.p.p. ed eccesso di potere.
     Non si sarebbe dovuto iniziare il procedimento disciplinare a suo carico, in quanto egli era stato assolto dai reati ascrittigli perché il fatto non sussiste.
     La censura è infondata.
     Il Collegio ritiene che l’invocata norma del codice di procedura penale non possa impedire all’Amministrazione di valutare, sotto il diverso profilo disciplinare, fatti, comportamenti o stili di vita comunque emergenti dalla sentenza penale di assoluzione.
     Invero, la Corte di Appello di Catania, nel valutare positivamente l’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori (rese relativamente alla posizione del ricorrente) ha affermato: “… che esse si presentano con caratteristiche di coerenza espositiva e consistenza circostanziale in relazione ai fatti.
     Risultano, infatti, acquisiti elementi probatori secondo cui l’imputato era conosciuto personalmente (e per ragioni diverse dal servizio) da appartenenti all’organizzazione, che egli ebbe a fornire appoggio all’organizzazione mafiosa in forma di notizie su operazioni di Polizia e di supporto a fatti delittuosi, che ricevette somme di denaro in diverse circostanze a fronte dell’illecita collaborazione”.
     Pertanto, pur rilevando che il Giudice d’appello ha poi osservato che da tali dichiarazioni proviene un compendio di elementi carente di riscontri e, pertanto, insufficiente a concretare la configurazione di un concorso nei fatti delittuosi ascritti, tuttavia, è apparsa evidente la sussistenza di una complessiva censurabilità sul piano deontologico-professionale della condotta posta in essere dall’interessato.
     Legittimamente quindi l’Amministrazione, sotto tale profilo, ha iniziato e concluso il procedimento disciplinare a causa della riscontrata mancanza di affidamento sulle doti morali e caratteriali del ricorrente e del disvalore sociale e funzionale del suo comportamento rispetto ai doveri propri dell’agente di polizia.
     Privo di fondamento si appalesa, altresì, il terzo motivo di gravame - con il quale il ricorrente si duole, ex art. 97 D.P.R. n. 3/1957, della mancata ricostruzione della propria posizione giuridica ed economica per anzianità, contribuzione e retribuzione, relativamente al periodo di sospensione cautelare dal servizio - posto che la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte di Appello di Catania è sostanzialmente superata, poiché, come prima rilevato, il procedimento disciplinare è stato legittimamente iniziato e si è concluso con la misura espulsiva della destituzione dal servizio, con ciò asseverando ex post la legittimità della sospensione cautelare a suo tempo disposta.
     D’altra parte, va rilevato che la complessa vicenda in argomento non ricade sotto le previsioni dell’invocato art. 97, 1° comma, del D.P.R. n. 3/57; l’Amministrazione, infatti, pur in presenza di una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto sotto l’esaminato profilo penale, ha legittimamente ritenuto di dover avviare il procedimento disciplinare, essendo emersi nel corso del giudizio circostanze ed elementi ritenuti suscettibili di valutazione sotto il profilo disciplinare in quanto, all’evidenza, gravemente in contrasto con i fondamentali valori insiti nei compiti istituzionali della Polizia di Stato.
     Privo di fondamento appare, infine, il quarto ed ultimo motivo di gravame, con cui l’odierno ricorrente ha eccepito l’illegittimità del provvedimento disciplinare in quanto asseritamente emesso in violazione del principio di gradualità della sanzione, di cui agli artt. 1, 7 e 13 del D.P.R. n. 737/81.
     Invero, con riferimento alla condotta riprovevole addebitata al ricorrente, il Collegio osserva che dagli atti del processo è emerso che lo stesso aveva intrattenuto rapporti interpersonali con esponenti di due importati consorterie mafiose, con un comportamento che, pur non integrando gli estremi di una fattispecie penale, è risultato essere oggettivamente grave sul piano disciplinare, deontologico e morale.
     Il provvedimento di destituzione, pertanto, appare congruo in relazione alla gravità dei fatti accertati nonché adeguatamente motivato, con specifico riferimento alla natura delle violazioni commesse, che oggettivamente hanno prodotto gravi lesioni all’immagine della Polizia di Stato, per cui è divenuta inevitabile, per accertata incompatibilità del ricorrente a permanere nel Corpo della Polizia di Stato, la risoluzione del suo rapporto di impiego con l’Amministrazione resistente.
     Conclusivamente, l’appello va respinto perché infondato.
     Ritiene altresì il Collegio che ogni altro motivo od eccezione  di rito e di merito possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.
     Appare equo al Collegio disporre la compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.
P. Q. M.
     Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe.
     Spese del grado compensate.
     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
     Così deciso in Palermo, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 29 giugno 2010, con l’intervento dei signori: Paolo D’Angelo, Presidente f.f., Guido Salemi, Gabriele Carlotti, Filippo Salvia, Pietro Ciani, estensore, componenti.
F.to Paolo D’Angelo, Presidente f.f.
F.to Pietro Ciani, Estensore
Depositata in Segreteria
il 14 febbraio 2011


   

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